1.2.2.2 BULLISMO
In un paese come il Giappone in cui fin da bambini viene insegnato a far parte di un gruppo omogeneo e ad uniformarsi agli altri, tutti coloro che sono troppo intelligenti, troppo timidi, troppo deboli, grassi o semplicemente diversi sono bersaglio di vessazioni e discriminazioni.. Nei primi anni di scuola elementare, insegnanti e genitori lasciano che le naturali dinamiche di gruppo prendano il controllo sulla classe, convinti che se lasciati agire da soli i bambini formeranno un gruppo coeso e acquisiranno le auspicate competenze sociali. Tali capacità sono considerate essenziali per arrivare con successo all’età adulta sapendo creare e mantenere rapporti armoniosi con gli altri. I bambini giapponesi sono pertanto scoraggiati ad esprimere le loro diversità, ed i genitori enfatizzano fin da quando sono piccoli l’importanza di venire incontro alle attese altrui (Rothbaum, 2000;Masataka, 2002).
Raramente dunque genitori e insegnanti si intromettono per evitare che un bambino che non si conforma venga vessato o ostracizzato. Laddove una madre occidentale insisterebbe che i docenti vigilino affinché il bambino non sia picchiato, un genitore giapponese tende ad accettare la supremazia del gruppo, ed è più probabilmente portato a chiedersi che cosa il figlio abbia fatto per essere maltrattato. L’assunto di base è che il gruppo scorge nel carattere del bambino una verità interiore che il genitore non è in grado di vedere. Il gruppo dei pari rappresenta una vera e propria autorità per il bambino, più di quanto non lo siano i genitori o gli insegnanti (Crystal, 1994). Come sostiene Rolhen: “mandando i loro figli a scuola, le mamme giapponesi essenzialmente delegano la propria autorità [ sul figlio ] alla scuola, la quale ha da questo momento la responsabilità di far diventare il bambino un membro della società”(Rolhen, 1989). L’allenamento per avere delle relazioni e delle responsabilità adulte avviene attraverso le relazioni che si instaurano all’interno della classe e durante le attività di gruppo, le regole sociali ed etiche vengono apprese dai propri coetanei e non dagli adulti. Il gruppo, e in particolare il gruppo classe, all’interno del quale i bambini trascorrono la maggior parte del proprio tempo, assume in Giappone le caratteristiche di un’entità autorevole, a cui è lasciato il giudizio finale sul bambino (Rolhen, 1989). Da qui è possibile comprendere non solo come mai il bullismo, lo ijime, sia così diffuso in Giappone, ma anche la rilevanza che può avere nella vita di un bambino nel caso in cui ne diventi vittima. A partire dalla metà degli anni ’80 si sono verificati in Giappone dei casi di suicidio di ragazzi molto giovani che erano stati vittima di violenza a scuola da parte dei compagni. Questi episodi hanno portato una sempre maggiore attenzione sul fenomeno da parte della stampa, dell’opinione pubblica e di esperti che hanno tentato di comprenderne le dinamiche psicologiche implicate (Carbone, 2008; Ricci, 2008).
Nonostante il fenomeno del bullismo esista in molte società, in Giappone è particolarmente aspro e diffuso e sembrano non esistere norme morali che lo disincentivino. Secondo uno studio condotto nel 1994 per conto del Ministero per la Pubblica Istruzione, il 58,4% degli alunni delle scuole medie dichiarava di aver subito atti di bullismo. Un seconda indagine effettuata nel 2003, invece, evidenzia come gli studenti che si rifiutano di andare a scuola dopo aver subito atti di bullismo mancano dalle lezioni in media dai diciotto mesi ai due anni (Zielenziger, 2006). In effetti questi episodi sono spesso la miccia traumatica per il ritiro dalla scuola, che , come abbiamo visto, può sfociare in hikikomori.
Nel passato queste forme di prepotenza consistevano principalmente in uno scontro uno-ad-uno in cui un bambino più forte infliggeva qualche umiliazione ad un bambino maggiormente debole o meno popolare (Crystal, 1994). A causa della forte pressione a conformarsi fin da quando si è bambini ogni sorta di differenza può diventare bersaglio di ijime, una differenza nel modo di parlare, nel modo di apparire, anche eccellere in un determinato campo può essere una ragione valida. Oggigiorno la natura del bullismo in Giappone è cambiata. Il bullo oggi non è più uno studente particolarmente forte o intelligente, ma è un ragazzo nella media, sia dal punto di vista fisico che accademico. La più grande divergenza dalle forme di bullismo del passato che si osserva è costituita dal fatto che gli atti di bullismo non sono più opera di un solo individuo ma di un gruppo di studenti, i quali, per le ragioni più svariate, decidono di prendere di mira e vittimizzare un loro compagno. Sono il senso di disonestà implicito nel coalizzarsi contro un altro compagno e il senso di impotenza della vittima a rendere il bullismo di oggi particolarmente insidioso(Crystal, 1994).
Una forma di bullismo diffusa in Giappone, chiamata shikato, consiste nella decisione deliberata da parte di un gruppo di studenti, di isolare e ignorare un altro studente. Circa un quarto delle manifestazioni di bullismo in Giappone riguardano varie forme di isolamento ed emarginazione. In una società collettivistica come il Giappone, in cui l’appartenenza al gruppo è cruciale per la sopravvivenza sociale, l’ostracismo inflitto da shikato rappresenta una forma particolarmente significativa e crudele di punizione ( Crystal,1994).
L’esser invisibili, volontariamente ignorati, o derisi, produce un forte dolore narcisista, che porta a mettere in atto un meccanismo di difesa, come il ritiro in hikikomori, per evitare troppa sofferenza . Nella storia di Kenji10, questo primo rifiuto traumatico, per quanto casuale, è diventato l’inizio della sua prolungata reclusione. La prima volta che Kenji si è rifugiato nella sua stanza è stato a seguito del suo “congelamento” in quinta elementare. Un giorno i compagni cominciano a usare nei suoi confronti il trattamento del silenzio. Lo ignorano a mensa, sui campi di gioco, fanno finta di non vederlo per strada e si comportano come se non fosse in classe. Kenji non ha mai capito perché sia iniziata quella tortura, ma non si è più ripreso dal trauma (Zielenziger, 2006).
La natura insidiosa, indiretta e crudele di shikato può essere compresa alla luce delle dinamiche di in-group e out-group in Giappone. In tale società bisogna essere conforme alle altre persone altrimenti si ha una sensazione di perdita, di alienazione, di vergogna. Il concetto centrale attorno il quale ruotano queste dinamiche è quello dell’inclusione-esclusione (Cardoso, 2005). L’inclusione rappresenta “ l’omogeneizzazione di un outsider, il piegarsi dei suoi desideri per conformarsi alle norme del gruppo” e in Giappone, serve ad eliminare le differenze e creare un consenso uniforme. L’esclusione invece rappresenta l’alienazione di un insider, cioè l’atto attraverso il quale un gruppo trasforma un suo membro in un alieno etichettandolo come essenzialmente diverso dagli altri membri del gruppo.( Cardoso, 2005). Sebbene lo stimolo per l’esclusione sia spesso una differenza di natura banale, il brutale trattamento che spesso ne deriva suggerisce che i carnefici de- umanizzino completamente la vittima. Proprio a causa di questa de-umanizzazione, l’individuo isolato si percepisce come se l’essenza più intima di sé sia stata degradata e perduta in seguito all’esclusione (Cardoso, 2005). In un simile contesto, per adattarsi si deve sacrificare la propria interiorità per l’appartenenza al gruppo, e, se non ci si riesce, l’unica soluzione appare il ritiro. A questo proposito sono eloquenti le parole di un giovane hikikomori, Kazuki Ueyama:
“Quando dei reclusi sociali provano a proteggere sé stessi e la propria interiorità, non possono andare bene per la società. Quando cercano di adattarsi alla società, devono distruggere la loro interiorità. E in Giappone, una volta che abbandoni, non puoi tornare indietro” (Zielenziger, 2006).
I giapponesi si sentono vivi solamente in gruppo, ne consegue che essere banditi equivale ad una sentenza di morte. A partire da questa prospettiva si può capire come gli isolamenti imposti dai compagni possano, in alcune circostanze, portare un bambino al suicidio.
In un sistema sociale chiuso come quello delle scuole giapponesi e delle aziende, la dinamica dell’inclusione e esclusione, genera una competizione feroce tra i membri del gruppo per conformarsi il più possibile alle norme. Vi è una netta distinzione tra coloro che riescono in tale competizione per l’uguaglianza e coloro che non ne sono in grado. Questi ultimi vengono etichettati come ochikobore, coloro che sono rimasti indietro. In un sistema, sia scolastico che lavorativo basato su una così serrata competizione, l’individuo lavora costantemente sotto la pressione di non sapere se diverrà ochikobore. Le ben note laboriosità e diligenza dei giapponesi sono dovute al loro terrore di restare indietro ed essere esclusi dal gruppo a cui appartengono (Zielenziger, 2006).
Questa stessa paura si manifesta sia nei bulli sia in coloro che ne sono vittime. Per questo, come sostiene Maniwa, il fenomeno del bullismo riflette l’esperienza sia dei bambini che degli adulti nel Giappone moderno. Il bullismo non è comune solo a scuola o sui campi di gioco, ma la paura di essere vessati è diffusa ovunque nel mondo degli adulti.
Combattere il problema del bullismo sembra molto difficile poiché i ragazzi non fanno altro che copiare le modalità che vedono adottare dagli adulti in famiglia, a scuola e negli uffici. Il bullismo è diventato così un fenomeno sempre più diffuso, organizzato, persistente, dissimulato e strutturato su interazioni di tre o quattro persone, tra chi tiranneggia, chi subisce e coloro che decidono di essere spettatori.
Zielenziger riporta nel suo libero il pensiero dello psichiatra Kosuke Yamazaki dell’Università di Tokai, uno dei molti esperti convinti del nesso tra hikikomori e bullismo.” I ragazzi possono utilizzare lo ijime per sbarazzarsi di chi è diverso” sostiene Yamazaki (Zielenziger, 2006). Una volta che un ragazzo viene vessato non riesce più ad andare a scuola, e questo diventa spesso l’inizio dell’hikikomori. La sindrome del futoko, il rifiuto di andare a scuola, è spesso, come sostenuto precedentemente, il primo stadio del ritiro. Coloro che decidono di allontanarsi da scuola per un anno difficilmente vi torneranno e sono ad altissimo rischio di compiere il passo successivo e rifiutarsi di uscire dalla propria stanza (Ricci, 2008). Questo è ciò che è avvenuto nella dolorosa vicenda di Kaz Ueyama, a cui un mal di stomaco ha cambiato il corso della vita. Alle scuole medie soffriva di dispepsia di origine nervosa che lo obbligava ad uscire molte volte dalla classe per recarsi in bagno. Presto, quando usciva dal bagno, ha cominciato ad incontrare un gruppo di compagni che lo aspettavano fuori per prenderlo in giro. Prima di allora era uno studente bravissimo, ma a seguito di quelle umiliazioni le cose cominciarono a precipitare. Kaz comincia ad essere preso di mira dai compagni e i suoi mal di stomaco iniziano a peggiorare. Finché, quando un giorno un insegnante lo colpisce con la cintura per aver disturbato, capisce di non farcela più e di soffrire troppo per poter tornare a scuola. A scuola si sente isolato e non riesce più a trovare la motivazione per andarci.. Per mesi Ueyama si chiude nella propria stanza e si rifiuta di andare a scuola. A parte i pasti che consuma insieme alla madre, abbandona del tutto la società. A sedici anni non riusciva più ad andare a scuola e non usciva mai dalla sua stanza. Per un mese intero non ha visto il viso di suo padre. Ueyama, osservando il Giappone dal rifugio del suo appartamento, e con molto tempo a disposizione per pensare, comincia a metterlo in discussione.
“Che senso ha lavorare così tanto? Perché mai dovrei frequentare una scuola dove non mi è consentito coltivare i miei interessi intellettuali, come la storia o la filosofia, ma devo solo memorizzare date e nomi per sostenere gli esami di ammissione all’università?Per quale motivo dovrei sacrificare le mie idee, le mie opinioni, solo per entrare nel mondo degli affari? Perché mai dovrei uscire?”(Zielenziger, 2006).
Rivolgendosi ai genitori di ragazzi hikikomori Ueyama continua:
“Mi facevo sempre domande su ogni cosa. Continuavo a chiedermi: E il lavoro? Che cosa farò?, ma non riuscivo a trovare una risposta. Continuavo a pensare che alla fine sarei uscito, ma non ero in grado di sopportare le occhiate scandalizzate dei vicini. Mi vedevo incapace di adattarmi. Pensavo di non essere altro che una persona malvagia che non sa vivere in modo normale. Così ho lasciato perdere” (Zielenziger, 2006).
Il fenomeno hikikomori pone un quesito che riguarda direttamente le problematiche del sistema educativo giapponese, che sembra proprio esserne una delle principali cause. A partire dall’asilo gli insegnanti inseriscono i bambini all’interno di piccoli gruppi, chiamati kumi. Ogni attività, da questo momento fino al diploma, dal mangiare, giocare e studiare, avvengono all’interno di questi piccoli gruppi. Viene dunque sviluppato fin da subito un forte senso del “noi” e del “loro”. Per cui i bambini sentono un intenso legame con il proprio gruppo, di cui desiderano far parte (Cardoso, 2005). Chi soffre di hikikomori è solitamente stato escluso dal gruppo, per cui la decisione del ritiro può avvenire anche in seguito a questo sentimento di fallimento e di esclusione. Questi ragazzi presentano delle difficoltà maggiori a socializzare con gli altri e divenire parte dell’in-group, sperimentando spesso sentimenti di rifiuto. Inoltre, la prepotenza, le umiliazioni e l’isolamento che subiscono sono spesso la causa scatenante per cui decidono di lasciare la scuola (Crystal, 1994). Il sentimento di “individualità” in un tale sistema, in opposizione al sentimento di appartenenza al gruppo, causa in loro la sensazione di aver deluso la società, di essere diversi e comunque sbagliati. Se un bambino esprime la propria opinione, le proprie aspirazioni, o se non riesce ad integrarsi perfettamente nel gruppo, verrà ostracizzato dai compagni (Crystal, 1994). In questo ambiente essere un individuo risulta sempre più difficile. Hikikomori è il risultato di una ribellione inconscia contro un sistema che crea robot. Questi ragazzi non vogliono entrare a far parte di una società in cui non vi è un pensiero individuale. Dal momento in cui non hanno più contatti con la scuola, perdono anche l’opportunità di completare la propria maturazione sociale. In questo perdono le competenze necessarie per vivere in Giappone, ma allo stesso tempo mancano dell’individualità sufficiente per diventare delle persone autonome (Ricci, 2008). La ragione del loro assentarsi da scuola non dipende dalla considerazione che la scuola non piace, ma è maggiormente legata al fatto che non trovano un posto all’interno di essa. Gli hikikomori, oltre ad essere a volte poco efficienti sul piano della socializzazione, sono spesso ragazzi molto intelligenti, con interessi particolari e che in qualche modo hanno seguito un processo verso la maturazione che li differenzia dagli standard della cultura dominante. Come sostiene Sadatsugu Kudo, che gestisce un centro per il recupero degli hikikomori, in un’ intervista rilasciata a Zielenziger sostiene che il problema non siano le persone affette da hikikomori, ma più che altro il Giappone (Zielenziger, 2006). La pressione ad essere tutti uguali nella società giapponese e la spinta verso l’uniformità portano chi si comporta diversamente a percepirsi come escluso.