Vaso di Pandora

Hikikomori: da ritiro sociale a fenomeno psicopatologico

Capitolo 1

1.1 PRESENTAZIONE DEL FENOMENO HIKIKOMORI

Il termine hikikomori  letteralmente significa ritiro ed è stato coniato dallo psichiatra giapponese Tamaki Saito che nei primi anni ’80 individuò un numero sempre crescente di giovani, i quali per motivi legati ad un iniziale forma di Apatia Scolastica e rifiuto di andare a scuola finivano con l’interrompere ogni contatto con il mondo esterno rinchiudendosi nella propria camera (Pierdominici, 2008; Ricci, 2008). Saito , che gestisce una clinica nella prefettura di Chiba, dove ha in terapia centinaia di hikikomori con le loro famiglie, è stato il primo psichiatra a scrivere in modo approfondito  sulla  sindrome,  diagnosticandola  inizialmente  come  un  tipo  di  depressione,  un disturbo di personalità, o come schizofrenia, ma dal momento in cui iniziò ad avere in trattamento sempre più ragazzi con gli stessi sintomi, ha iniziato ad utilizzare il termine hikikomori ( Saito, 2003). Presto i media hanno cominciato ad interessarsi al fenomeno, etichettando questi ragazzi come “ the lost generation” (Ryall, 2003; Murakami, 2000), “ the missing million” (Rees, 2002) e “the ultimate social parasitism”. Sono state scritte dozzine di libri e articoli di giornali, sono stati girati film e documentari3. Allo stesso tempo il termine hikikomori è apparso nelle prime pagine dei quotidiani a causa di crimini sensazionali, compiuti da ragazzi affetti da tale disturbo, diffondendosi così a macchia d’olio tra l’opinione pubblica (Watts, 2002).

Trattandosi di una forma di se-clusione dal contesto sociale, il termine può essere tradotto come auto-isolamento. In giapponese la parola hikikomori non esiste, ma esiste una parola simile, hikikomoru che significa ritirare, abbandonare,  chiudere. Hikikomori è la forma sostantivizzata di due verbi: hiku, indietreggiare, e komoru, isolarsi, nascondersi (Pagliaro, 2009). In tutte le lingue in cui questo termine si è diffuso viene utilizzato sia per indicare il fenomeno che il soggetto che ne è affetto.

Laddove si riscontri una tendenza all’auto-isolamento, che perduri per più di sei mesi, con rifiuto di ogni tipo di relazione sociale, sopratutto nella fascia di età tra i 14 e i 30 anni , si parla di hikikomori (Furlong, 2008).

Hikikomori è stata spesso ritenuta un fenomeno unico, specifico del Giappone contemporaneo (Saito, 2003) e causato da determinate caratteristiche della sua cultura. Queste caratteristiche sono inerenti  alla  recente  diffusione  del  capitalismo  e  al  sistema  educativo  di  questa  società,  al prolungarsi dell’adolescenza dovuto all’aumento degli anni spesi a studiare, alla diffusione della tecnologia collegata ad un maggiore individualismo e alla nuclearizzazione della famiglia giapponese  (Lock,  1988;  Nishimoto,1997; Kaneko,  2006).  Le  caratteristiche  della  società giapponese implicate nella diffusione di hikikomori fanno riferimento anche a valori specifici e unici della cultura giapponese, come l’enfatizzazione della dipendenza/indulgenza (amae) (Saito, 2001) e il collettivismo (Nishimoto, 1999).

Il primo passo verso questa condizione sembra essere l’abbandono scolastico, seguito dal rifiuto graduale di ogni forma di contatto con il mondo esterno. Secondo Tamaki Saito (1998) i ragazzi che smettono di frequentare la scuola sono a rischio di diventare hikikomori, in Giappone circa il 10% di  coloro  che  abbandonano  la  scuola  successivamente interrompe  ogni  contatto  con  amici  e familiari fino a ritirarsi completamente dalla società (Dziesinski, 2003). Inoltre non registrandosi casi di ritorno spontaneo alla normalità il numero di hikikomori sembra essere destinato ad aumentare, data anche la difficoltà a reinserirsi da soli una volta scivolati nell’isolamento.

Gli adolescenti che praticano hikikomori sono nella maggior parte dei casi (80%) maschi, di estrazione sociale medio-alta, sono solitamente figli unici o figli maggiori, i quali tradizionalmente sono rivestiti di maggiori responsabilità e aspettative di successo (Jones,M., 2006). Nonostante dopo la seconda guerra mondiale il sistema ie della struttura familiare tradizionale giapponese sia stato abolito, il concetto di preparare il figlio maschio maggiore ad assumersi la responsabilità della famiglia è rimasto un valore culturale importante (Dziesinski, 2004).

Questi ragazzi presentano un’assenza di patologia pregressa e una condotta di vita “normale” prima dell’avvento di una situazione scatenante che li conduce al ritiro. I trigger più comuni sono il fallimento ad un esame, la rottura di una amicizia o l’essere stati vittima di bullismo (Marconi, 2009). Tali circostanze, all’interno di un sistema scolastico altamente competitivo come quello giapponese, in cui il successo scolastico e il proprio ruolo all’interno del gruppo sono determinanti per il futuro dell’individuo, assumono il valore di una ferita narcisistica non rimarginabile se non attraverso la reclusione in una forma di suicidio sociale.

Il rifiuto della scuola sembra essere il primo passo per sprofondare in hikikomori. L’assenza si protrae per settimane e mesi interi, il contatto con gli altri studenti appare sempre più difficile in quanto fonte di enorme disagio, attribuibile anche ad una competenza sociale poco sviluppata (Ishikida, 2005; Saito, 2002)

Gli unici interessi divengono i videogame, la televisione, internet e l’uso delle chat line.

Al tempo in cui Tamaki Saito diede un nome ed una dignità di esistenza propria a questa sindrome, il fenomeno era già diffuso ma veniva identificato con Apatia o Sindrome di Apatia. Tamaki Saito ha definito hikikomori “ una condizione di reclusione in cui non vi è partecipazione sociale, come frequentare la scuola, andare a lavorare o mantenere relazioni intime con gli altri o con i membri della propria famiglia, che duri almeno sei mesi. Il fenomeno non è causato da un disturbo mentale” (Saito, 2002).

Secondo Ushio Isobe, uno psichiatra giapponese,” hikikomori è uno stato in cui un individuo si isola per più di sei mesi in casa, limitando il numero di cose di cui necessita o di cui pensa di aver bisogno” (Isobe,U. in Krysinska, 2002). In accordo con Saito, Isobe  sostiene che hikikomori non sia il sintomo di un disturbo mentale. Contrariamente a ciò che si potrebbe pensare, in realtà gli hikikomori desiderano uscire dalla condizione di isolamento ma non riescono a trovare il modo di farlo, cresce così il senso di vergogna per la propria inadeguatezza e il sentimento di sconforto sperimentato si autoalimenta (Krysinska, 2002). Quando questi giovani non vengono considerati malati, sono etichettati come giovani viziati che si rifiutano di assumere un ruolo adulto, e che hanno abbandonanto lo spirito di gruppo e il senso del dovere.

In Giappone spesso la condizione di hikikomori viene erroneamente considerata una forma di auto- indulgenza, giudicata negativamente da una società che assiste al rifiuto di una grande fetta della nuova generazione di contribuire economicamente alla crescita del paese. Il fenomeno hikikomori , nella percezione dell’opinione pubblica giapponese è stato di conseguenza accostato a quello dei parasites singles, giovani adulti, trentenni, single che vivono e dipendono dai genitori (Dziesinski, 2003). Il fenomeno dei parasite single, in Giappone, così come in Italia, è favorito dallo stretto legame di dipendenza tra i figli, in particolare maschi, e la madre ( Pierdominici, 2008). Nella società collettivistica giapponese in cui il gruppo e il bene collettivo costituiscono un valore primario, una scelta consapevole, egoistica ed individualistica, di rifiuto ad acquisire il proprio ruolo sociale acquista un significato estremamente negativo.

Il termine hikikomori ha guadagnato approvazione nella società cominciando a vivere di vita propria, diffondendosi e diventando un’espressione di uso comune (Watts, 2002).

In effetti, come evidenzia Watts (2002), per il momento il termine hikikomori è senza dubbio utilizzato maggiormente dai media anziché dalla comunità scientifica, e si è diffuso in modo dilagante a seguito di alcuni episodi di cronaca riguardanti hikikomori, che hanno richiamato l’attenzione  dei  media  e  dell’opinione  pubblica  (Watts,  2002).  In  alcuni  casi  sporadici  gli hikikomori hanno compiuto atti violenti verso i familiari, verso compagni o conoscenti, ma nella maggioranza dei casi l’alienazione e l’inibizione tipica dell’isolamento trova espressione in sintomi negativi come l’apatia piuttosto che in sintomi positivi come la violenza (Watts, 2002; Marconi, 2009). Questi episodi hanno in ogni caso contribuito ad alimentare la percezione negativa del fenomeno. La definizione del disturbo è così rimasta imprecisa, e le stime dell’entità del problema sono largamente basate su lavori non scientifici dal momento che la ricerca in questa area è appena iniziata.

Tatsushi Ogino (2004) ha definito gli hikikomori come “ persone che tipicamente si isolano dalla maggior parte delle attività sociali e si ritirano nelle proprie abitazioni o nelle proprie stanze per un lungo periodo, senza che i loro familiari ne comprendano le ragioni” (Ogino, 2004).

Secondo Naoki Ogi, direttore del Centre for Clinical Research on School Development, hikikomori rappresenta una condizione in cui ragazzi dai 15 anni in su si isolano in casa dei loro genitori per periodi di tempo di più di sei mesi a causa di ragioni altre rispetto alla presenza di un disturbo mentale (Clifford, 2002).

Il “Suwa group”4 un gruppo di psichiatri che ha condotto una ricerca sull’influenza della famiglia nel ritiro sociale, ritiene che hikikomori non sia il nome di un disturbo ma piuttosto un termine che indica una condizione che implica problemi comportamentali. Essi sostengono che hikikomori potrebbe coprire uno spettro di vari disturbi psichiatrici e includere aspetti come la schizofrenia, disordini affettivi, disturbi ossessivi compulsivi, disturbi d’ansia, disturbi pervasivi dello sviluppo e disturbi di personalità (Suwa, M. et al., 2003).

Nonostante non siano infrequenti manifestazioni ossessivo-compulsive, e i disordini affettivi e le problematiche dovute alla difficoltà di gestire l’ansia siano aspetti centrali nella sindrome del ritiro sociale, nonostante inoltre i sintomi negativi della schizofrenia richiamino il fenomeno hikikomori così  come  lo  spettro  schizoide  dei  disturbi  di  personalità,  ritengo  utile  all’analisi  mantenere l’unicità, l’unitarietà e la peculiarità della sindrome per poterne comprendere le dinamiche pur nella multisfaccettatura delle sue manifestazioni.

Spesso i sintomi depressivi e i comportamenti ossessivo-compulsivi, sebbene possano in alcuni casi condurre alla reclusione sembrano essere più che altro una conseguenza dei numerosi mesi trascorsi chiusi all’interno della propria camera e della propria mente. Molti ragazzi hikikomori si lavano più volte al giorno e sembrano essere ossessionati dalla sporcizia e dall’idea di puzzare; nonostante il soggetto non soffra di evidenti disturbi pregressi, a seguito dell’auto-isolamento, può arrivare a soffrire   di disturbi secondari, quali depressione, disturbi ossessivi-compulsivi, paranoia (Jones, 2006; Ricci, 2008).

Caso: giovane di 24 anni.5

Già dall’adolescenza,  aveva dimostrato di essere timido, problematico e nervoso. Alle scuole superiori, una compagna di classe si lamentò del suo cattivo odore. Come risultato, diventò paranoico rispetto all’odore del suo corpo e cominciò ad avere problemi con la scuola che dopo un anno abbandonò.  Dopodichè,  seppur con  molte  difficoltà  interpersonali,  si  cimentò  in  molti  lavori  che  regolarmente  lasciav  dopo  un  mese. Cominciò così gradualmente a ritirarsi dalle attività sociali. Trascorreva tutto il tempo nella sua stanza. Smise di aver paura del suo odore, ma si sviluppò  in lui la patologia  di mysophobia  e divenne  evidente  la sua comulsionpe a lavarsi. Questo stato di ritiro sociale durò per oltre 4 anni, quando con i suoi genitori vennero in ospedale per un trattamento.

Sebbene inoltre vi siano delle somiglianze con l’agorafobia, la depressione o altre forme di disturbi mentali, la comunità psichiatrica sembra concorde nel sottolinearne le importanti differenze (Watts, 2002). Gli hikikomori hanno un comportamento e una condotta normali se non sono sottoposti a una situazione stressante, questo ha portato a privilegiare l’analisi delle cause esterne, inerenti la famiglia, la società e il sistema scolastico giapponese, che conducono all’implosione ed alla rottura con il mondo esterno.

Per molti anni l’analisi di questa sindrome è stata trascurata e il Giappone ha tentato di tenere nascosto il fenomeno. Solo nell’aprile del 2003, venti anni dopo che il disturbo era stato riconosciuto, The Ministry of Health, Labour and Welfare ha condotto uno studio di ricerca e ha pubblicato le prime linee guida ufficiali che tratteggiavano la natura di hikikomori. Il Ministero ha definito eufemisticamente questo disturbo come uno stile di vita “ incentrato sulla casa” e ha fornito i seguenti criteri per identificarlo: assenza di motivazione ad andare a scuola o al lavoro; assenza di segni di schizofrenia o disturbi mentali; persistenza oltre sei mesi. La ricerca è stata condotta su 6151 soggetti che si sono rivolti ai centri di Salute Pubblica nell’anno precedente. Il 40% dei soggetti aveva un’ età compresa tra i 16 e i 25 anni. Un’ altro 21% aveva un’età compresa tra i 25 e 30 anni., il 25% riferiva una durata dei sintomi di almeno 5 anni, il 76% era di sesso maschile e circa l’8% riferiva un ritiro dalla società di durata superiore ai dieci anni ( Watts, 2002; Dziesinski, 2003, 2004; Ogini; 2004; Ricci, 2008; Marconi, 2009). La fotografia del fenomeno che appare da questa ricerca non rappresenta che la punta dell’iceberg del problema poiché per definizione gli hikikomori sono riluttanti a richiedere aiuto e spesso le famiglie a causa della profonda vergogna che provano in relazione alla condizione del proprio figlio, tendono a nascondere il problema e a richiedere aiuto solo dopo molto tempo o a seguito di manifestazioni violente. Rispetto ai dati ufficiali, vi sono, infatti, altre fonti, come l’associazione di genitori di ragazzi hikikomori, HKJ, che denunciano un numero intorno a 1.600.0006.

Tamaki Saito è stato il primo a stimare in più di un milione gli adulti giapponesi affetti da questa malattia sociale. È giunto a questo numero sulla base degli schizofrenici che si riscontrano nella società giapponese, poichè il suo lavoro sul campo l’ha convinto che l’incidenza di hikikomori debba essere altrettanto diffusa (Saito, 1998). La sua stima è diventata in breve tempo il valore di riferimento adottato anche da giornalisti e dal network televisivo statale NHK, che ha parlato spesso di un numero compreso tra un milione e un milione e duecentomila (Rees, 2002; Parry, 2004). In effetti, nessuno sa con esattezza quanti siano gli hikikomori in Giappone, ciò a causa anche della forte riluttanza del Paese a prendere consapevolezza della diffusione del fenomeno.

Il ritiro in hikikomori ha inizio nella quasi totalità dei casi con un’assenza prolungata da scuola, che può protrarsi per mesi, dovuta all’eccessivo stato di tensione e di stress a cui si è sottoposti e dal quale questi ragazzi ricercano inizialmente pace, o frequentemente a seguito di episodi di bullismo, ijime (Parry, 2004; Ricci, 2008). Lo ijime è particolarmente diffuso in Giappone e ha conseguenze devastanti in una società  in cui non essere parte del gruppo è comunemente considerato motivo di vergogna (Crystal, 1994; Dziesinski, 2003; Cardoso, 2005; Jones, 2006). Il fenomeno ha assunto in Giappone dimensioni inquietanti, a seguito anche del verificarsi di numerosi casi di suicidio tra ragazzi molto giovani che avevano subito atti di bullismo. I casi di suicidio in Giappone sono 30 mila ogni anno, in Europa sono 60 mila con una popolazione quattro volte superiore. Il sistema scolastico competitivo, l’aspettativa imponente di successo da parte della famiglia e della società provocano uno stress insopportabile per molti che conduce alle uniche scappatoie possibili: l’isolamento, hikikomori, la depressione, il suicidio (Carbone, 2008).

“(…) Non puoi studiare in una scuola che ti chiede di essere il migliore, il più competitivo, quando ancora non sei  quello  che  ancora  stai  cercando  di  scoprire  di  essere.  Qui non  si  sceglie,  nessuno  sceglie.  Si  è selezionati come pesci raccolti in una rete da cui non puoi scappare perché sotto non c’è il mare”(Carbone, 2008).

Con il suicidio, il ragazzo ferito è sopraffatto dal senso di profonda vergogna per l’esclusione dal gruppo, in hikikomori le dinamiche sembrano essere più complesse: il ragazzo non sceglie di morire, ma rifiuta il mondo e tutte le cause della sua sofferenza.

Secondo Tamaki Saito spesso gli hikikomori dicono di voler morire ma non riescono a mettere in atto il suicidio perché sono salvati dal loro narcisismo, una forma di auto-compiacimento che impedisce loro di togliersi la vita (Pierdominici, 2008).

Lo stato di hikikomori, inizialmente ricercato per trovare sollievo dal mondo esterno, si protrae per mesi e anni, facendo perdere la nozione del tempo e il senso della realtà, la quale acquista contorni sfumati attraverso il rumore dello scorrere della vita al di fuori delle proprie mura; l’Altro, in mancanza di riferimenti reali, nella propria mente diventa sempre più ansiogeno. La fobia degli altri oltre a diventare ipertrofica nello stato di hikikomori, spesso si presenta prima del ritiro ed assume la forma di una paura morbosa delle relazioni con gli altri che va al di là delle normali difficoltà relazionali che tutti ci troviamo a fronteggiare (Ricci, 2008).

Un volta ritirati dal gruppo, gli hikikomori rimangono intrappolati, al punto di non essere più certi della propria identità sociale e di non conoscere il percorso attraverso il quale potersi re-inserire. A questo proposito dice Jun, giovane hikikomori:

“Fondamentalmente  pensavo di essere in grado di uscire in qualsiasi momento, ma la realtà era che alla fine  non  lo  facevo.  Non  lavoravo.  Sapevo  che  se  fossi  uscito  anche  solo  per  un  momento,  i vicini  mi avrebbero visto e si sarebbero chiesti come mai un ragazzo della mia età non lavorasse. Alcuni sapevano che mi ero fatto vedere da uno psichiatra, quindi probabilmente  pensavano che avessi dei problemi grossi, che fossi matto. Il vento freddo  del sekentei  che soffiava  fuori mi rendeva  tutto molto duro” (Zielenziger, 2006).

Il sekentei indica il modo in cui una persona è vista agli occhi della società, o anche il bisogno di salvare le apparenze, e in Giappone è in grado di soffocare notevolmente la libertà individuale a causa della pressione che esercita (Zielenziger, 2006). La necessità di un’identità sociale, una volta persa la propria a causa del ritiro, spiega anche la naturale tendenza di questi ragazzi ad accettare e ad identificarsi con l’etichetta sociale “hikikomori”, dal momento che questa offre loro almeno una base per un proprio senso di identità, per quanto marginale e stigmatizzato (Dziesinski, 2003; Ogino, 2004).

Una  conseguenza  comportamentale  tipica  del  ritiro  in  hikikomori  è  l’inversione  del  ritmo cicardiano. L’81% dei  ragazzi hikikomori inverte il  giorno con  la  notte,  con  implicazioni di carattere sia biologico che psicologico (Saito, 1998, Ricci, 2008, Cardoso, 2005). La prolungata mancanza di esposizione alla luce solare può causare squilibri che hanno un’incidenza sul tono dell’umore. A livello psicologico la causa sembrerebbe riguardare il profondo senso di vergogna e inadeguatezza per essere inattivi nel tempo in cui tutta la società si muove e opera; gli hikikomori tentano di reprimere questo sentimento di inadeguatezza dormendo durante il giorno per svegliarsi quando il mondo fuori è immobile.

Alcuni ragazzi hikikomori escono durante la notte, per recarsi a procurarsi cibo nei negozi aperti 24h su 24,  molti di loro chattano su internet, unica forma di comunicazione che permette loro di mantenere un seppur flebile contatto con il mondo esterno e di soddisfare un umano bisogno di relazione, aggirando la paura del rapporto fisico, reale, concreto, protetti dallo schermo e dalla personalità di facciata che la realtà virtuale permette di crearsi. Giocano ai videogame, leggono, ascoltano musica, trascorrendo così anni, e, in molti casi, intere parti della propria esistenza (McNeill, 2004; Jones, 2006; Zielenziger, 2006).  Gli hikikomori utilizzano i media come forma di evasione dalla realtà. La televisione permette loro di avere notizie dal mondo senza essere osservati o controllati, i videogame rappresentano una forma di svago che non comporta nessuna interazione umana o coinvolgimento interpersonale, così come le chat-line.

“(…) La chat è sempre lì. Leggo ma non partecipo. E internet è un futuro alla rovescia dove tutto il  possibile si è già realizzato, è già accaduto, si è verificato, ed è stato accantonato in un archivio”( Carbone, 2008).

Le cause di questo fenomeno sono, per il momento, solo vagamente comprese e ipotizzate, ma è chiaro che si tratti di un fenomeno peculiare giapponese. La forte pressione al successo accademico e a conformarsi alle norme a scuola, al lavoro e nella società sono spesso state individuate come cause primarie. Hikikomori sarebbero coloro i quali si spezzano sotto la pressione, e, invece di competere, scelgono di ritirarsi dalla società.

Il fenomeno della reclusione adolescenziale volontaria è ormai considerata una sindrome culturebound, legata alla cultura di un paese in un determinato momento storico, così come è stata l’isteria tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900, e come lo sono oggi i disturbi alimentari nella società occidentale (Sakamoto, 2005; Furlong, 2008; Kaneko, 2006). Questo problema sociale ha assunto entità tale da aver spinto il governo giapponese, che per molti anni ha ignorato il problema, a prendere precauzioni ed interessarsi al fenomeno. Gli esperti, infatti, avvertono che la maggior parte dei giovani colpiti dalla sindrome, anche qualora ristabiliscano un contatto con il mondo esterno, difficilmente potranno reintegrarsi completamente. Ciò significa che anche se usciranno dalle loro stanze, potrebbero non avere mai un lavoro a tempo pieno e essere in grado di costruire una relazione a lungo termine (Zielenziger, 2006). Alcuni di loro non lasceranno mai le proprie case, i genitori smetteranno di lavorare e quando non ci saranno più il destino di questi giovani reclusi, le cui capacità lavorative e relazionali si sono atrofizzate, resta una questione aperta. Gli hikikomori non sono quindi solamente un problema per sé stessi e per le loro famiglie, ma anche per l’intero paese che sta combattendo contro la recessione economica, il calo delle nascite e una crisi giovanile dilagante. Si tratta dunque di vite interrotte, che difficilmente ripartiranno dal punto in cui sono state abortite. Il Giappone, con un tasso di natalità che si è abbassato fino a 1,3 figli per donna, sta invecchiando velocemente, e si trova a dover fronteggiare la crisi di una nuova generazione che potrebbe non prendere mai parte allo sviluppo del paese (Parry, 2004;Zielenziger, 2006).

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