2.2.1. La violenza domestica
Mentre il termine violenza domestica nei paesi occidentali viene utilizzato per riferirsi a situazioni in cui la moglie viene aggredita fisicamente o verbalmente dal marito, o all’abuso sui minori da parte degli adulti, in Giappone la forma di violenza domestica maggiormente diffusa è quella in cui il figlio agisce violenza nei confronti dei genitori (Crystal, 1994). Malgrado non se ne parli in pubblico, i ragazzi hikikomori, isolati, frustrati e arrabbiati picchiano spesso i propri genitori, urlano, rompono oggetti, spaccano vetri. Questo comportamento si verifica spesso negli hikikomori, creando uno stato di paura e prostrazione in tutta la famiglia. Anche se non vi sono dati precisi in merito, gli psichiatri affermano che circa la metà degli hikikomori aggredisce o maltratta i propri genitori (Ricci, 2008). Molti genitori sono stati costretti ad abbandonare la propria casa, dormendo in macchina, a casa di amici, oppure hanno trovato una nuova sistemazione in cui il figlio possa vivere da solo e dove loro provvedono a portare i pasti.
Con queste forme di violenza il figlio esprime tutta la rabbia nei confronti dei genitori, attribuendo loro la responsabilità per lo stato di dolore in cui si trova e da cui non vede via di uscita.
Nella maggior parte dei casi è la madre la principale vittima della violenza, fino a diventare una vera e propria schiava del figlio (Crystal, 1994); in queste condizioni particolarmente traumatiche i genitori riportano danni psichici e a volte totale perdita del sonno per la forte angoscia che provano in casa propria (Saito, 1998).
Saito (1998) sostiene che alla base della violenza non vi sia una forma di odio ma di tristezza alimentata dal senso di colpa per voler punire la famiglia ritenuta colpevole di aver causato lo stato di ritiro (Saito, 1998).
Se l’adolescente percepisce la sua vita come una catena di fallimenti, esercitare violenza sull’altro può significare scaricare su di lui la colpa del proprio insuccesso e rifuggire così dai desideri di suicidio a cui molti di loro sono soggetti. In questo senso può essere considerata una reazione più positiva dell’apatia totale, per questo è importante comprenderne le ragioni (Ricci, 2008).
Molti terapeuti suggeriscono di prestare attenzione ai quei comportamenti che possono ridestare il senso di inferiorità del figlio oppure di tentare di modificare la struttura familiare. Saito (2002) propone in alcuni casi ai genitori di trovarsi un rifugio da utilizzare quando la situazione diventa insostenibile; questa strategia appare inconsueta da un punto di vista occidentale, ma è esemplificativa del livello di indulgenza e di accondiscendenza che caratterizza l’atteggiamento dei giapponesi verso i propri figli, favorito dal rapporto di amae; quando il figlio è sotto stress o si sente minacciato, amae può arrivare ad assumere forme sempre più estreme (Fogel, 2007). Una forma accettabile di amae riflette un desiderio di vicinanza, di sentirsi protetti e che i propri bisogni vengano soddisfatti, ma quando i desideri inespressi del bambino diventano più estremi, come il bisogno di uscire da una condizione di ritiro e di insoddisfazione, il comportamento di amae può acquisire dimensioni distruttive. In questi casi è possibile interpretare i comportamenti violenti di hikikomori verso i genitori come il tentativo disperato di raggiungere una vicinanza emotiva e sfuggire da un intollerabile sensazione di minaccia personale.
Le dinamica familiari che si è ritrovata nelle famiglie giapponesi vittime di violenza domestica è la stessa che si può riscontrare nelle famiglie degli hikikomori ed è costituita principalmente da tre componenti: una relazione madre-figlio invischiata,un figlio dipendente, centrato su di sé, con un basso auto-controllo e una scarsa tolleranza alla frustrazione; un padre distante e assente ( Kumagai & Kumagai, 1986).
Le madri sono più frequentemente oggetto di violenza da parte dei figli all’interno della famiglia, uno studio sui casi di violenza domestica ha rilevato che le madri di queste famiglie sono spesso iperprotettive e intrusive, hanno una personalità immatura e dipendente che le porta a contrastare la separazione del figlio attraverso l’eccessiva indulgenza verso i suoi bisogni o il controllo di vari aspetti della sua vita ( Youth Development Headquarters, 1980). La relazione invischiata tra madre e figlio fa sì che si crei una condizione per cui i desideri della madre diventano impercettibilmente gli stessi del figlio, si sviluppa in questo modo un intenso desiderio nel figlio di compiacere la madre cercando di rispondere alle sue aspettative (Crystal, 1994). Il desiderio di assecondare i desideri della madre, unito alla profonda paura di non riuscirci e di essere rifiutato da colei da cui si dipende totalmente può condurre ad uno stato di rottura che sfocia nella violenza. I clinici che si sono occupati di violenza domestica sovente riportano che la spirale di violenza ha inizio quando il figlio incontra qualche tipo di ostacolo, come un fallimento scolastico o il mancato raggiungimento di qualche traguardo, realizzando di essere inadeguato a rispondere alle aspettative della madre (Inamura, 1990).
A causa di determinate caratteristiche di personalità quando egli incontra simili difficoltà nella propria vita vengono stimolati i sentimenti di ostilità rimasti latenti e i comportamenti aggressivi verso i genitori che ne conseguono.
Una delle caratteristiche riscontrate nei figli di queste famiglie è la presenza di una bassa tolleranza alla frustrazione, la mancanza di auto-controllo e perseveranza nel momento in cui incontrano le difficoltà, come non riuscire ad entrare nella scuola prescelta ( Youth Development Headquarters, 1980). La violenza, che sembra derivare da un desiderio di rivalsa verso il fallimento reale vissuto, ad un altro livello sembra riflettere la profonda paura di essere inghiottiti da una madre iperprotettiva e controllante prima di essere riusciti a formarsi un’identità propria.
Non avendo avuto l’opportunità di crearsi un’esistenza indipendente, quando sperimentano per la prima volta delle frustrazioni si rendono conto della discrepanza tra i propri desideri e quelli che avevano fino a quel momento perseguito, appartenenti ai loro genitori, attribuendo a loro la responsabilità della loro mancata realizzazione (Crystal, 1994). Frustrati dal fallimento sia interiore che esteriore, l’ostilità latente che hanno coltivato per tutti gli anni in cui hanno subordinato la propria volontà alle aspettative dei genitori, diventa manifesta e si esprime nei comportamenti aggressivi e distruttivi caratteristici della violenza domestica.
L’assenza del padre e la sua distanza emotiva contribuisce ad alimentare la dinamica familiare disfunzionale di queste famiglie. Molti autori hanno individuato nel declino del ruolo paterno e nel conseguente aumento del potere della madre una delle cause dell’incremento della violenza domestica dopo la fine della Seconda guerra mondiale (Kumagai e Kumagai, 1986). Come sostiene Kawai il cambiamento nell’equilibrio familiare ha portato ad una sostituzione del principio paterno con quello materno ( Kawai, 1986); il principio materno è rappresentato da un tipo di amore incondizionato e di accettazione totale del proprio figlio mentre il principio paterno avrebbe il ruolo di preparare il figlio alla realtà esterna, insegnandogli la dicotomia tra bene e male e agendo da “terzo” che allenta lo stretto legame madre.figlio (Kawai, 1986). A seguito della contrazione della famiglia, della fine del sistema tradizionale di primogenitura e della rivoluzione tecnologica che ha dato alle donne più tempo a disposizione per occuparsi dei figli, il principio paterno si è gradualmente indebolito (Inamura, 1990). Il padre ha il compito di insegnare al figlio il potere di perseverare di fronte alle difficoltà e di dipendere dalle proprie capacità, lo stesso tipo di potere di cui sono spesso carenti quegli adolescenti autori di violenza. Il mancato coinvolgimento del padre con il figlio impedisce al bambino di apprendere l’auto-disciplina e la perseveranza che gli permetterebbe di tollerare le frustrazioni nel momento in cui si presentano invece di far sì che esse scatenino l’aggressività verso i genitori (Crystal, 1994). Inoltre, la distanza emotiva del padre dalla moglie è uno dei fattori che causano il rivolgersi della madre verso il figlio con delle aspettative eccessive ed un livello di intimità inappropriato (Inamura, 1990). Le dinamiche intrapsichiche , intrafamiliari e sociali considerate fattori determinanti nel causare la violenza verso i genitori sono le stesse che sono state ipotizzate essere responsabili della reclusione di giovani adolescenti. Non stupisce quindi che il maltrattamento nei confronti dei genitori sia strettamente legato a hikikomori. Il fenomeno della violenza domestica negli hikikomori sembra infatti avere radici nella personalità del figlio, nelle dinamiche familiari e nel sistema sociale. Nel figlio la problematica origina in una personalità dipendente con bassa tolleranza alla frustrazione e una tendenza a sperimentare angoscia nelle situazioni di stress. La disfunzione familiare risiede nel rapporto simbiotico tra madre e figlio, nella distanza dal padre e nel suo mancato coinvolgimento nella crescita del figlio (Crystal, 1994). Per quanto concerne la società il motivo della rottura ha radice nell’intensa pressione sul successo accademico, che trasmette il principio per cui il primario valore come essere umano sembra essere legato principalmente alla competenza scolastica; spesso infatti sono le difficoltà legate alla carriera scolastica a scatenare il processo di ribellione che conduce alla violenza domestica.