[Parte I: Introduzione e Capitolo 1]
INTRODUZIONE
Hikikomori è un fenomeno che nella terra del Sol Nascente interessa più di un milione di ragazzi, giovani adolescenti, che interrompono ogni comunicazione con il mondo sociale, lasciano la scuola, abbandonano gli amici e si ritirano nella propria stanza, praticando una forma di autoreclusione volontaria che può protrarsi per anni, e dalla quale molti di loro non trovano gli strumenti per uscire.
I giovani giapponesi di oggi sono cresciuti in una società ricca e moderna, con tutto ciò che possono desiderare, eppure molti di loro non sono in grado di farvi fronte. L’impatto con il mondo adulto, investito di valori consumistici e richieste di successo personale, provoca in questi ragazzi una reazione di paura, di angoscia, di solitudine e di totale sfiducia verso la realtà che li circonda e il futuro che viene loro offerto (Watts, 2002). Questo senso di inadeguatezza dell’adolescente minaccia la fiducia in sé trasformandosi in reazioni di rabbia, di violenza, di devianza che possono sfociare in una ribellione silenziosa che conduce al rifiuto totale della società e della vita che questa offre loro. Sembrano incapaci però anche solo di immaginare scenari alternativi e vie di fuga, in una società come quella giapponese in cui non vi è spazio per l’espressione di sé e per la costruzione di percorsi di vita alternativi.
Questi ragazzi, per la maggior parte maschi, tra i venti e i trent’anni, sono giovani intimoriti, isolati, intelligenti ma soli, che si rinchiudono nella propria stanza per proteggersi, spinti da un istinto di autoconservazione (Zielenziger, 2006). Frustrati e arrabbiati con la generazione precedente che rappresenta una società in cui non si riconoscono e non trovano collocazione, hanno rinunciato ad inserirsi in un mondo che sembra negare loro ogni espressione di sé.
L’analisi di questo fenomeno non può prescindere dalla comprensione della cultura e della società entro la quale sta dilagando, dalla comprensione del substrato culturale e sociale del paese, delle rigide tradizioni che regolano le dinamiche familiari, i rapporti interpersonali e le aspettative che i giovani giapponesi sono chiamati a realizzare.
Nella società confuciana giapponese, in cui hanno massimo valore la disciplina, l’obbedienza, l’inibizione di sé e il rispetto delle tradizioni per il bene supremo, wa, l’armonia di gruppo, e dove l’identità individuale dipende dal proprio ruolo all’interno del gruppo e trova conferma solo nell’interdipendenza reciproca, i giovani che sono stati incapaci o riluttanti ad entrare in questo ordine di cose e prendere il proprio posto nella società non riescono a trovare altra soluzione all’autoemarginazione, e, rinchiusi nelle proprie stanze, dipendono completamente per il proprio sostentamento dai genitori che contemporaneamente odiano (Zielenziger,2006)
Questi ragazzi si nascondono in casa per mesi e anni interi, incapaci di uscire dalle mura protettive della propria stanza da letto. Sono incapaci di lavorare, studiare, interagire con gli altri, spaventati,non riescono a risalire sull’efficiente nastro trasportatore che li condurrebbe dall’asilo, all’università, a un posto di lavoro.
Gli hikikomori non presentano patologie psichiatriche e non sono diagnosticabili come schizofrenici, depressi o agorafobici (Marconi, 2009). L’impossibilità di effettuare una diagnosi avvalendosi delle categorie del DSM-IV e la forte predominanza, se non esclusività, della presenza di questo fenomeno in Giappone, ha portato gli psichiatri giapponesi a considerarlo alla stregua di una malattia sociale. Gli esperti sostengono che non sia una scelta di stile di vita ma una malattia che affigge una generazione resa vulnerabile dalla ricchezza, dall’avanzamento delle tecnologie, dall’instabilità e dalla richiesta di flessibilità (Larimer, 2000; Watts, 2002; Murakami, 2003). Questa generazione non è in grado di assecondare le aspettative della società utilizzando gli strumenti che i valori rigidi e tradizionali giapponesi forniscono. Come sostiene Zielenziger, il fenomeno hikikomori prenderebbe forma in seno ad una crisi valoriale, culturale ed economica della società giapponese (Zielenziger, 2006). Considerare hikikomori una malattia sociale conduce, a mio avviso, a trascurare le dinamiche interne, le fragilità, la peculiare intelligente sensibilità, le difficoltà emotive con cui un’intera generazione di giovani si sta confrontando, uscendo spesso sconfitta dalla sfida con la realtà quotidiana che si trova impreparata ad affrontare. Le numerose domande irrisolte, anche per scarsità di ricerche e studi scientifici, che l’estremismo di un fenomeno come hikikomori pone e dalle quali anche le industrializzate e globalizzate società occidentali non possono esimersi dal trovare risposta, possono essere affrontate unicamente partendo dal punto di vista dell’interazione tra fattori psicologici, dinamiche familiari e interpersonali, e dinamiche sociali.
Numerosi sono gli interrogativi che il dilagare di questa sindrome porta alla luce: tale isolamento può essere considerato semplicemente una forma di ribellione contro la cultura dominante? Oppure gli hikikomori sono troppo curiosi e sensibili per accettare i vincoli collettivi, e si rifugiano nelle loro stanze sia per proteggersi sia per spirito do autoconservazione in una società che non accetta diversità? O ancora questa sindrome è la manifestazione di una forma di sofferenza per essere “differenti” dalla società che li circonda?
Un primo interrogativo porta a domandarsi se hikikomori, per cui circa un milione di adolescenti (Saito, 1998)1 dicono addio al mondo e scelgono di praticare la reclusione totale nelle proprie case, sia un fenomeno che interessi solamente la cultura giapponese o se non sia invece segnale di un problema che sarà destinato a coinvolgere anche la nostra cultura. Da qui nasce la necessità di riconsiderare il contesto in cui si genera l’autoreclusione, domandandosi se il crescente disagio giovanile riscontrabile nella società a noi nota possa assumere modalità simili di espressione.
Un ulteriore interrogativo prende corpo dal considerare hikikomori come forma di resistenza contro l’ordine sociale in Giappone: il comportamento di auto-reclusione, per quanto estremo possa apparire, potrebbe essere una forma passiva di opposizione che ha origine all’interno della cultura giapponese (Krysinska, 2002; Ricci, 2008). Coloro che scelgono l’auto-isolamento si stanno, più di chiunque altro, ribellando contro la massima autorità, il gruppo, nell’unico modo che conoscono, ritirandosi dalla partecipazione come forma di protesta. Questo potrebbe aiutare a capire perché questi ragazzi non scelgono una forma attiva di resistenza e di ribellione. Negli Stati Uniti, dove, in opposizione al Giappone, vi è una cultura fortemente improntata allo sviluppo e alla valorizzazione dell’indipendenza e della libertà di espressione (Doi, 1971; Rothbaum, 2000), le forme di ribellione giovanile assumono caratteristiche decisamente più attive, dalle condotte devianti, all’uso di droghe e alcool. Molti adolescenti nell’Europa Occidentale o negli Stati Uniti assumono comportamenti asociali, ma nel ribellarsi ai genitori, alla scuola, alla società, manifestano condotte maggiormente “esplosive”, dimostrando rabbia, mettono musica a volume altissimo e adottano un abbigliamento fuori dalle regole come dichiarazione al mondo esterno della propria rivoluzione (Zielenziger, 2006).
Nell’analizzare il fenomeno molti autori, tra cui Ricci e Zelenziger, individuano caratteristiche tipiche di questa società che portano a considerare la sindrome come il riflesso di qualcosa di unico che origina nella storia e nella cultura giapponese (Ricci, 2008; Zielenziger, 2006; Cardoso, 2005;). La tendenza all’autoreclusione sta però varcando i limiti geografici che fino ad ora l’hanno contenuta, espandendosi a macchia d’olio in Corea, la quale condivide con il Giappone una cultura neoconfuciana che sostiene l’attacamento alla famiglia (Pierdominici, 2008). Ma anche la società occidentale non sembra essere esente da questa epidemia, sebbene non assuma le dimensioni del Giappone. In Inghilterra, a seguito della messa in onda del documentario di Philip Rees (2002) sui ragazzi hikikomori vennero lasciati numerosi messaggi nel sito del programma, un terzo dei quali (13 su 39) furono scritti da genitori che denunciavano una condizione simile in cui versavano i propri figli: reclusione in una stanza per un lungo periodo di tempo, guardando la televisione o giocando ai videogame, a volte senza avere nessun contatto con i familiari, rifiuto di frequentare la scuola o mantenere un lavoro. Anche in Italia, come sostiene Antonio Piotti2(2008), psicoterapeuta, l’Istituto milanese il Minotauro nel quale egli lavora riscontra una presenza di casi che per molti aspetti richiamano lo stato di hikikomori: ritiro sociale da almeno sei mesi, fobia scolare precedente, a volte internet addiction con inversione del ritmo cicardiano. Nonostante hikikomori rimanga un comportamento strettamente connesso con le peculiarità dello stile di vita giapponese, il suo diffondersi, magari differenziato in alcuni aspetti, potrebbe finire con il coinvolgere tutta la nostra civiltà (Ricci, 2008).
Negli ultimi venti anni sono aumentate esponenzialmente nella nostra società la mobilità, la flessibilità, la conseguente anomia, e si è diffusa una socialità allargata attraverso l’uso di internet e dei social network, che, se da un lato permette di nascondere il proprio Vero Sé, dall’altro sottopone ad una esposizione continua e ad un’assenza di privacy, tutto ciò in un clima di maggiore incertezza e indeterminatezza che non permette più di ancorarsi e rifugiarsi nei valori e nelle mete predeterminate che hanno scandito la vita delle generazioni precedenti. Non sorprende quindi che una modalità di rifiuto e ribellione degli adolescenti di oggi possa prendere la forma di autoreclusione alla ricerca di un riparo che fornisca un guscio protettivo dal mondo esterno, un ritorno all’utero materno in cui riprendere il respiro, che può poi, però, rivelarsi una trappola dorata da cui non si riesce a trovare la via di uscita.
Note
1 Saito Tamaki, psichiatra giapponese e direttore clinico del Sofukai Sasaki Hospital a Chiba , è considerato il massimo esperto di hikikomori. I suoi testi sono in lingua giapponese e non sono mai stati tradotti in inglese. Per la rilevanza del suo contributo i libri da lui scritti sono citati nella tesi con l’anno di pubblicazione ma non compaiono in bibliografia: Saito, T.(1998). Shakaiteki Hikikomori: Owaranai Shishunki [ Hikikomori as a Social Phenomen]. Kinokuniya Shoten, Tokyo.
Saito, T.(2002, marzo). Hikikomori (social withdrawal) and japanese youth culture. The Journal of Japanese Scientist (Nihon No Kagakusha). The Bullettin of JSA.
Saito, T.(2003). Hikikomori Bunkaron [ Cultural Perspectives of Hikikomori]. Kinokuniya Shoten, Tokyo.
Saito, T. (2001)”Hikikomori” no Hikaku Bunkaron. [Comparative Cultural Debates from the Perspective of “Hikikomori”]. Chuo Koron, 1401, pp.124-133.
2 In Ricci, C., 2008.