Arrivano tardi queste scuse, se si pensa che l’adesione della SIP alle leggi razziali risale agli anni 40: ma meglio tardi che mai. Onestamente, non so se siano state precedute da analoghe iniziative SIP nei decenni passati; in questo caso, quella attuale servirebbe opportunamente a ribadirle.
E’ però più importante capire, al di là delle scuse, se davvero abbiamo fatto del tutto i conti con quell’epoca.
Il fascismo storico è certamente un capitolo chiuso; ma è possibile che ad esso siano sopravvissuti certi suoi connotati di base. Per Pasolini il fascismo è odio, aproblematicità , ricerca di bersagli diretti, giudizi aprioristici alimentanti il conformismo sotto una maschera di attivismo e vitalismo; è una sorta di droga che aiuta a non pensare. Nell’ottica pasoliniana di marxista atipico, una forma di fascismo persisterebbe nel neocapitalismo e nella sua pretesa di dominio altrettanto totalizzante, pur se la sua carica di violenza è ammorbidita, in parte virtuale, mascherata e avvolta nella seduzione. Senza voler assimilare acriticamente questa lezione, tuttavia ci aiuta a leggere certi movimenti attuali: esempi minori ma significativi certe trasmissioni televisive che, proclamando una alleanza con la gente comune, mobilitano folle artificiali contro i più deboli; o certe recenti ordinanze di sindaci contro la mendicità, bersaglio diretto e molto facile da colpire.
L’aproblematicità denunciata da Pasolini è concetto vicino a quello di semplificazione. Questa può essere un utile strumento euristico: isolare temporaneamente un elemento può aiutare a esaminarlo meglio. Ma non si deve mai dimenticare che esso fa parte di un sistema più ampio e complesso, altrimenti la semplificazione diviene precisamente aproblematicità: compromette la riflessione scartando aspetti che la complicano, e può infine divenire possibile fonte di violenza. Posso colpire un mendicante se dimentico il suo dolore e tutto ciò che può trovarsi a monte di esso: risolvo tutto con un “semplice” allontanamento che lo sottragga alla mia vista delicata.
Profeticamente, Jacob Burckhardt sentiva arrivare già nella Felix Europa del 1889 quelli che chiamava i “terribili semplificatori”: personaggi pronti a offrire soluzioni rapide, univoche e decise a problemi complicati. Vi riconosciamo già i protagonisti dei totalitarismi del ‘900, ma non soltanto. Infatti questa non è una realtà che ci siamo lasciati alla spalle: Saskia Sassen nel 2014 scrive il volume “Espulsioni”: dei vulnerabili e dei poveri. Certo questa non è una novità, ma per lui il concetto di espulsione, che va al di là di quelli di povertà e ingiustizia, è una “terribile semplificazione” proprio nel senso proposto da quel Burckhardt a cui Saskia Sassen esplicitamente si rifà.
Nel più modesto e circoscritto ambito della nostra professione, aproblematicità – semplificazione è il non confrontarci con la follia: è il rinchiudere il folle così da non vederlo (ho visto reparti in cui le sale mediche erano ben lontane dalle corsie); è il corto circuito terapeutico con prescrizione immediata e decontestualizzata del farmaco, o con interventi mirati al singolo sintomo; è cortocircuito diagnostico con la provvidenziale scorciatoia offerta dal DSM V (abuso di uno strumento che potrebbe avere una sua utilità soprattutto nella ricerca).
Nell’epoca del fattaccio denunciato, esistevano fra l’altro posizioni teoriche che potevano costituirne le premesse, in aggiunta a quei fattori importanti ma non esclusivi che sono l’opportunismo ambizioso e il timore. Alla “Difesa della Stirpe” da soggetti deboli e malati (così come da etnie presunte aliene) potevano contribuire le incontrastate posizioni kraepelinane sul peso dei fattori costituzionali nella genesi della follia; così pure le teorie di Morel sulla degenerazione, che si riteneva certo avviata da precarie condizioni di vita ma tuttavia destinata a divenire ereditaria.
La questione si pone dunque in modo abbastanza analogo nella vita politica come nella nostra attività professionale, riproponendo il problema delle connessioni fra i due ambiti, senza con ciò voler tornare al particolare riduzionismo sessantottino che voleva dissolvere la psichiatria nella politica. Ma le connessioni restano importanti: credo, fra l’altro, sia lecito considerare l’organicismo una scelta non solo tecnica anche politica, poichè se la follia è fatto esclusivamente naturale, a-culturale, smette di indurre a riflessioni psico-socio-antropologiche che potrebbero diventare disturbanti. Mi chiedo, senza nulla togliere al valore delle scoperte collegate, se l’attuale prevalere del paradigma neuroscientifico non sia incentivato anche dal mutato clima politico, dall’incontrastato dominio del capitale (non solo di Big Pharma), dalla devastante crisi della sinistra.