Vaso di Pandora

Fra Joyce, Proust, Freud

La psicanalisi non nasce in un vuoto culturale: se da un lato si ispira all’ideologia positivistica, cercando una legittimazione scientifica, dall’altro prende forma e fa in qualche modo da cerniera in una fase storica in cui l’interesse del mondo della cultura e della creatività  si rivolge all’esame dell’interiorità, alla soggettività anche irrazionale e inconscia, al suo declinarsi nel tempo. Basta pensare ai due grandi Autori contemporanei di Freud: James Joyce e Marcel Proust, pur così diversi fra di loro. Infatti, Joyce non apprezzava Proust: “certo è un raffinato psicologo, ma il suo stile mi lascia indifferente: il lettore finisce la frase prima di lui”.

Ma restano evidenti le correlazioni dei temi, anzi del tema fondamentale: l’attenzione ai tempi mentali, ai loro contenuti più o meno consapevoli, ai loro riflussi e flashback che problematizzano il rapporto fra il passato e il “qui e ora”. E’ evidente il rapporto con un fondamentale tema della psicanalisi classica: anche  questa può esser vista come una “recherche du temps perdu”.   

  E’ anche evidente la differenza fra i due: Proust descrive con molta finezza e con un periodare ancora  tradizionale quanto accade nel mondo interno nel continuo confronto con l’esperienza della realtà   esterna, con i suoi  ricordi, immagini, fantasie, desideri, con le divaricazioni fra diversi percorsi di vita, reali o desiderati-immaginati ( tema questo approfondito, con tutt’altro approccio,  nell’ambito delle teorie della complessità). Il tutto, costantemente elaborato nella dimensione del tempo, del suo scorrere, del suo sopravvivere e tornare nel presente, magari in forma modificata: “L’immagine della nostra amica che crediamo antica ed autentica è stata, in realtà, rifatta da noi molte volte”. Viene in mente la nachtraglichkeit freudiana.

  Centrale, più che la verbalizzazione, è per lui l’esperienza sensoriale: “basta che un rumore, un odore già sentito o respirato altra volta, lo siano di nuovo, a un tempo nel presente e nel passato, reali senza essere attuali, ideali senza essere attuali, ideali senza essere astratti, perché subito l’essenza permanente ordinariamente nascosta delle cose venga liberata, perché il nostro vero “io” , che , che talvolta sembrava morto da un pezzo, ma che non lo era interamente, si desti, si animi”. Si parla, in qualche modo, di una terapia. E fra parentesi: “essenza” è concetto caro ai fenomenologi.

 Dal canto suo, Joyce rinuncia al periodare tradizionale ancora presente in Proust: ci fa vivere direttamente lo scorrere dell’esperienza interna, proponendoci  quel flusso di coscienza che paradossalmente  potremmo considerare il vero e proprio approccio realistico, poiché senza mediazioni ci mette di fronte al nostro complicato vissuto, a quell’esperienza interna che di fatto è il solo possibile accesso alla  conoscenza. Essa è fatta di percezioni, ricordi, fantasie, affetti, imprevisti collegamenti, in un  succedersi di eventi a prima vista slegati. Ciò ricorda quel che accade nel rapporto psicanalitico con quell’artificio tecnico denominato “associazioni libere”.

 Significativa la scelta del tema e del titolo, Ulysses, foriero di una serie di contrapposizioni: il suo Ulisse è un antieroe, fra l’altro tradito dalla sua Penelope, e la vicenda, ricca di riferimenti interiori ed esteriori,  si svolge non per dieci anni in un vasto e  mal conosciuto Mediterraneo, bensì in un solo giorno in una Dublino che sappiamo vissuta da Joyce come realtà angusta e soffocante: altro che mettersi “per l’ampio mare aperto”.  Questo contrasto proclama anche così l’esigenza di rinunciare all’esplorazione dell’ambiente esterno, e di rivolgersi all’interiorità.  Ciò include  lo “scandaloso”, per l’epoca, recupero della istintualità, della fisicità sessuale espresso nel monologo finale in un tripudio di immagini, e anch’esso parallelo a quello della psicanalisi: “and yes I said, I will yes”. Lo scandalo che  ha investito l’Autore non è diverso da quello che ha motivato critiche e accuse di pansessualismo a Freud.

  Si tratta di tre contemporanei: è interessante vedere come un approccio di tipo tecnico – modalità di cura per le nevrosi, che prevede anche un ampio tentativo di sistematicità teorica  – dimostri evidenti parallelismi e confluenze con grandi produzioni letterarie per loro natura “disinteressate”, che hanno il solo fine di esprimersi offrendosi alla fruizione dell’altro. Questo collegamento  può esser frutto di diretti incontri, ben documentati per Joyce anche se non con Freud ma con suoi epigoni come il triestino Weiss: assai meno, a quanto ne so,  per Proust. Quanto ai due scrittori, mi risulta  si siano incontrati una volta, in occasione di una celebrazione, e senza mostrare grande simpatia reciproca. E infine Freud, pur tutt’altro che restio nel riconoscere debiti con pensatori e letterati come Nietzsche e Dostoevskji, non cita affatto Proust nè Joyce. Mi pare dunque che i punti d’incontro esistenti nascano dalla comune appartenenza a un certo clima culturale  diffuso.

 Ma qui si entrerebbe nel problema generale di quanto e come un orientamento condiviso  che informa di sé un’epoca – che so, illuminismo, positivismo, esistenzialismo – cresca anche indipendentemente da un dialogo diretto fra i suoi maggiori esponenti, e quanto da un complesso intreccio di apporti e rimandi mai del tutto evidenziabili.

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