Vaso di Pandora

Fine vita, legalizzato il ‘sì’

Fine vita. Quando la libertà di morire diventa una forma estrema di autodeterminazione, il diritto si intreccia con la psiche. E la società si ritrova a interrogarsi sul significato stesso della vita e della sofferenza.

La morte come scelta consapevole

Per decenni è stata una questione rimossa, relegata nei margini dell’etica medica o confinata nei racconti privati di chi, nell’ombra, chiedeva di non soffrire più”. Oggi, con la recente legalizzazione del suicidio medicalmente assistito anche in Italia, la questione del fine vita entra definitivamente nello spazio pubblico, giuridico, ma soprattutto psicologico. Non si tratta più soltanto di decidere quando interrompere le cure, ma di riconoscere il diritto soggettivo a morire con dignità. E questo, inevitabilmente, apre ferite e riflessioni nuove.

Se fino a pochi anni fa la scelta del fine vita era considerata tabù, oggi diventa un campo di confronto tra la medicina, il diritto, l’etica e la psiche. Le motivazioni che spingono una persona a chiedere di morire non sono mai semplici, né riducibili a un’unica dimensione. Eppure, nel momento in cui uno Stato riconosce questa possibilità, prende atto della profondità del dolore umano — fisico, esistenziale, relazionale — e della necessità di accompagnarlo senza giudizio.

Quando il dolore diventa insopportabile

La sofferenza che porta una persona a scegliere la morte non è sempre tangibile o visibile. Spesso si tratta di un dolore che abita lo spazio della psiche più che quello del corpo. È qui che il diritto al fine vita si intreccia con il mondo della psicologia: chi chiede di morire non sempre vuole “scomparire”, ma desidera smettere di soffrire. In molti casi, dietro una richiesta di eutanasia o suicidio assistito, si cela una domanda: “Perché non mi è concesso il potere di decidere sul mio stesso destino?”.

La psiche umana è attraversata da ambivalenze profonde. Il desiderio di morire può coesistere con il desiderio di essere ascoltati, accompagnati, compresi. Il fine vita, in questo senso, non è mai un atto solitario: coinvolge i legami, le famiglie, le istituzioni e, soprattutto, le emozioni collettive. La decisione di legalizzare il “sì” al fine vita è anche un atto di responsabilità collettiva: ci chiede di diventare adulti, come società, rispetto alla morte.

Non è solo questione di diritti

La narrazione pubblica sulla legalizzazione del suicidio medicalmente assistito tende spesso a muoversi su due assi: la libertà e la dignità. Ma c’è un’altra parola che merita attenzione: responsabilità. Legalizzare il fine vita non significa solo concedere un diritto, ma anche –offrire strumenti psicologici e relazionali per accompagnare chi vive questa scelta. La legge, in questo senso, non può bastare. Serve una cultura della cura, della prossimità, dell’ascolto.

La psicologia clinica insegna che ogni decisione estrema nasce all’interno di un sistema di relazioni. Nessuno sceglie di morire nel vuoto: ogni soggetto è inserito in una rete di affetti, di aspettative, di silenzi. Per questo, più che semplificare il dibattito con slogan, è necessario creare spazi di parola, luoghi in cui la sofferenza possa essere nominata e accolta.

Fine vita e narcisismo sociale

Viviamo in una società che celebra la performance, la salute, l’efficienza. La vecchiaia, la malattia, la dipendenza rappresentano ancora un tabù. In questo contesto, la legalizzazione del fine vita può essere letta anche come reazione estrema a un modello sociale che fatica a tollerare la fragilità. Ma è proprio qui che si apre un interrogativo inquietante: il diritto a morire rischia di diventare un dovere a non disturbare?

L’etica della cura ci ricorda che ogni vita, anche quella più fragile o “inutile” secondo i parametri produttivi, merita rispetto. È qui che la psicologia ha un ruolo fondamentale: riconoscere il diritto a morire senza trasformarlo in un imperativo. La legalizzazione del “sì” non deve diventare una scorciatoia rispetto alla fatica di accompagnare la vita fino alla fine, anche quando questa fatica è immensa.

Le emozioni del congedo

Chi accompagna una persona verso il fine vita si confronta con emozioni complesse: senso di colpa, impotenza, rabbia, ma anche sollievo e amore. Il suicidio assistito non cancella questi vissuti: li amplifica, li rende visibili. Per questo è fondamentale prepararsi, anche a livello psicologico, a sostenere questi percorsi. La morte, quando è scelta, non è mai solo un atto individuale: è un passaggio relazionale.

Tra i vissuti più ricorrenti nei familiari e nei professionisti che accompagnano questi percorsi troviamo:

  • Il timore di “non aver fatto abbastanza”, che può trasformarsi in una ferita narcisistica o in un lutto complicato.
  • La sensazione di abbandono, vissuta come trauma secondario, soprattutto quando la decisione è comunicata all’ultimo momento.

Accogliere queste emozioni, legittimarle, raccontarle, diventa parte integrante del processo.

Dalla medicalizzazione alla ritualità

Uno degli effetti collaterali più frequenti della modernità è la medicalizzazione della morte. Si muore in ospedale, spesso soli, con il corpo intubato e il tempo scandito dai macchinari. La legalizzazione del fine vita, se ben accompagnata, può restituire al morire una dimensione rituale, simbolica, affettiva. Non si tratta solo di “spegnersi senza dolore”, ma di dare senso al congedo.

Ritrovare una ritualità significa anche:

  • Restituire al morire una narrazione, che non sia solo clinica, ma anche esistenziale e affettiva.
  • Integrare la morte nella vita, evitando di esiliarla nei non detti o nei corridoi degli ospedali.

La morte, quando viene accolta e nominata, smette di essere una minaccia e può tornare a essere un passaggio.

Una società matura sa dire “sì”

Legalizzare il fine vita significa anche riconoscere che la sofferenza, in certi casi, può non essere curata ma solo accompagnata. Dire “sì” al fine vita non è un cedimento alla morte, ma un atto estremo di rispetto per la libertà umana. In fondo, ogni persona ha diritto non solo a vivere con dignità, ma anche a morire con consapevolezza.

Una società che sa dire “sì” alla vita fino in fondo è anche una società che, senza ipocrisie, sa dire “sì” alla morte quando essa diventa l’unica possibilità per preservare l’integrità di un’esistenza. E questo, paradossalmente, è il segno di una profonda maturità affettiva e culturale.

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