Vaso di Pandora

Espressione co-creativa e comunicazione intuitiva

Commento alla relazione presentata al Festival della Scienza di Genova

Questa relazione è stata presentata nell’ambito del Festival della Scienza di Genova da un gruppo di ricerca giapponese, presentato e moderato da Antonio Camurri, Ordinario del Dipartimento di Informatica, Bioingegneria, Robotica, Ingegneria dei Sistemi (DIBRIS) di Genova.

Relatori: Y. Miwa, ingegnere, Ordinario della Waseda Unversity di Tokio;   H. Nishi, guest professor presso il National Museum of Etnology,  specializzata nello studio della danza e della espressione fisica dei pazienti psichiatrici;  H. Sawada, del dipartimento di Fisica applicata della Waseda University, impegnato nello studio  dell’elaborazione di suoni e immagini, delle  reti neurali, di robotica, di comunicazione tattile, delle interfacce umane e uomo – macchina; temi studiati anche da  T. Yamaguchi.
Questo gruppo multidisciplinare ha presentato i suoi studi in materia   di  comunicazione verbale e non verbale, e della possibilità che raffinate nuove tecnologie offrano prospettive amplianti la possibilità di  comprenderle.
Questo filone di ricerca propone già applicazioni operative: tecniche utilizzate a favore di  bambini e ragazzi disturbati, dal ritardo mentale all’autismo, e anche in casi di schizofrenia; inoltre, sono state messe alla prova nell’ultimo catastrofico terremoto che ha colpito il Giappone, quale apporto alla terapia per i numerosi casi di stress postraumatico acuto.
Una tecnica proposta – e mostrata durante la conferenza – è il teatro delle ombre:  si tratta di danze collettive, in cui ai corpi fisici si affiancano giochi di ombre: quelle degli stessi protagonisti. Ma non si tratta della pura e semplice fruizione dell’ombra direttamente proiettata: se non ho capito male, le afferenze propriocettive originantesi nei muscoli e tendini del danzatore vengono elaborate e avviate a contribuire alla costruzione dell’immagine – ombra, in una continua interazione dialettica fra ombra e soma.
Generando un’ombra in parte artificiale e modulandone colore e forma, si crea un gap fra corpo e ombra, volto ad  aumentare ed espandere la consapevolezza del corpo, stimolando la  creazione di  espressioni corporee. L’ombra secondo il relatore rappresenterebbe  quasi un “secondo me”, che a noi non può non richiamare alla mente l’”ombra” di Jung; ma l’impiego di un’ombra concreta, non metaforica, è chiaramente  erede della tradizione teatrale nipponica che fa ampio ricorso all’ombra e privilegia la comunicazione non verbale con forte espressione di emotività, come nel  Kabuki.
Il teatro delle ombre giapponese è presente fin dal secolo XVII, con tecniche ovviamente più ruspanti quale l’impiego di lanterne girevoli.
Nella tecnica proposta, può anche accadere che in un intervento di gruppo le ombre vengano proiettate su tutte le pareti dell’ambiente,  così avvolgendo gli utenti che in qualche modo vengono a far parte dello spettacolo e vi partecipano, in una espressione collettiva che viene definita “co-creazione”; concetto, questo, fondamentale in questa ottica. Il coinvolgimento dello spettatore, lo sappiamo, non è una novità nella prassi teatrale europea, ma qui assume caratteristiche peculiari e precise finalità terapeutiche.
Si propongono anche danze a due, in cui il contatto manuale e il rispecchiarsi nell’altro hanno un ruolo fondamentale: l’improvvisazione e la co-creazione generano un senso di inclusione, un rafforzamento del rapporto con l’altro, con componenti consapevoli e inconsce.  Si può creare anche una  interfaccia con la generazione del suono, con l’uso di una palla sonora impugnata dal danzatore che reagisce ai movimenti del corpo. Non c’è un motivo o un ritmo precostituito e il rapporto causale dal movimento al suono è immediato e involontario, e ciò potrebbe far la differenza con la nostra più che millenaria musica danzata, dove è il suono che ispira il movimento.
A due anche un’altra situazione, in cui due soggetti agiscono contemporaneamente o a turno su uno schermo frapposto fra loro, co- creando qualcosa . Ne è anche possibile una variante, con un solo soggetto e un interlocutore immaginario, definito “un altro me”. Non ho capito bene come funziona, ma mi pare intrigante (anche perché richiama, molto alla lontana, la situazione della seduta psicanalitica).     Si possono pure impiegare grandi schermi fessurati per consentire proiezioni da entrambi i lati e il passaggio degli attori attraverso lo schermo. Anche qui, una interazione fra fisicità del soggetto e creazione – o meglio co-creazione – tecnologicamente assistita.
E’ questa l’interessante specificità di questi interventi, per il resto non molto diversi dalle nostre abituali pratiche di musicoterapia, danzaterapia, psicomotricità.
Più lontano, ma solo  in apparenza, dal nostro campo di interesse il successivo intervento di Sawada, in realtà non estraneo perché si occupa pur sempre del tatto e della propriocezione, sensi privilegiati nei rapporti interpersonali più stretti; e che comunque ci ha aperto una finestra sul futuro, affascinante o inquietante a seconda dei gusti: la ricerca in corso sulla possibilità di trasmettere non solo – come avviene da  tempo – percezioni visive e uditive, ma anche tattili, così  che un “contatto” virtuale sostituisca o integri quello reale. Ciò ha a che fare con il problema dell’interfaccia uomo – macchina, e del confronto di questa con l’interfaccia persona – persona.
Ciò che si vuol conseguire con finalità sia teoriche che terapeutiche è sintetizzato dai relatori in due parole chiave: enbodiment (incarnazione, conoscenza corporea);  entrainment ( trascinamento, sintonia, empatia).
Mi pare evidente l’affinità di questo punto d’arrivo con quello della scuola italiana di Rizzolatti e Gallese (che pure parte da approcci e tecniche diverse), cui si riferisce anche Maurizio  Peciccia in “I semi di Psiche”; “Il meccanismo della simulazione incarnata fondato sul sistema specchio allarga ulteriormente il concetto di inconscio procedurale. Essa offre una nuova concezione empirica dell’intersoggettività che si basa sulla possibilità di coniugare identità e alterità: “per mezzo della simulazione incarnata noi possiamo mappare le sensazioni altrui riutilizzando le stesse rappresentazioni motorie, somato-sensoriali e viscero-motorie del nostro corpo”…. Il nostro corpo inconsciamente riflette specularmente e simmetricamente gli stessi movimenti, i medesimi gesti, le stesse emozioni dell’altro che coscientemente consideriamo diverso e distinto da noi stessi”.
La proposta di Miwa e dei suoi anticipa il nostro futuro? Da attendere con speranza o con timore?
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