Vaso di Pandora

Tra tutela e condanna, voci e guardiani

“Può suonare strano ma avrei preferito un contesto di psicosi piuttosto che non averne uno affatto”. (Jens, nel corso di una conversazione accademica).

Una realtà disgiunta, alienante ed alienata; come può, questo, essere auspicabile? 

Una tale dimensione mentale, così profondamente turbata da sconvolgimenti intestini e da incursioni terrifiche, può forse essere preferibile ad una totale mancanza di riferimenti psichici? Può questo giustificare la sua presenza? 

Le parole di Jens, pronunciate sommessamente nel corso di una conversazione accademica, impongono una riflessione: che questa possa essere il mezzo e, nondimeno, il fine ultimo dell’esercizio psichiatrico. Da doloroso viandante qual è stato, Jens ha sperimentato nel suo percorso di vita tanto l’attacco psicotico, espresso sotto forma di voci disturbanti, tanto il più completo silenzio della mente. Paradossalmente quelle voci che hanno tanto vincolato la sua vita e il suo agire vengono rimpiante nel momento in cui, per nove anni, tacciono. Ad esse si sostituisce solo un gran silenzio che impedisce a Jens di accedere ai più piccoli frammenti di memoria, obbligandolo a camminare nel mondo con il solo momento presente tra le mani. Vacilla cieco nel buio dell’inconsapevolezza, rischiarato solo da terrificanti frammenti di ricordo che sopraggiungono all’improvviso, lasciandolo sconcertato per la forza dell’abuso ricordato. È questo il momento in cui, secondo Jens, più si è confrontato con l’ipotesi suicidaria: una mancanza di contesto che sottrae ogni significato, che lo lascia perplesso ad osservare il quadro smembrato della sua vita. In questo panorama frammentato le voci si realizzano in quanto guardiani: le loro parole, per quanto intrusive, impediscono ai ricordi disturbanti di venire alla luce; impediscono al silenzio di svelare l’orrore dell’abuso.  E allora, se ciò è vero, come possono esse essere definite? Sono forse un delirio o un’illuminazione? Questo è ciò che si perderebbe, questa ricchezza di pensiero e di contenuti, se colpevolmente si divenisse miopi alle esperienze soggettive della psicosi. In un recente articolo, Louis Sass (2022) si interroga in merito all’importanza delle dinamiche esperienziali psicotiche all’interno di una dimensione psichiatrica. La comprensione di tali vissuti rivela la sua importanza non solo nella valutazione delle tecniche terapeutiche più affini, ma anche in un’ottimizzazione degli esistenti modelli psicopatologici, calati così in una dimensione soggettiva ed adattabile all’individualità presente. La psichiatria tradizionale, influenzata senz’altro da prospettive materialiste e riduzioniste, ha da sempre evidenziato una difficoltà nella comprensione del vissuto psicotico, in quanto non direttamente oggetto di incasellamento diagnostico ed apparentemente esente dall’ordine casuale del mondo.  Anche per questo motivo tali esperienze estreme, in termini specialistici, vengono ridotte a presupposti teorici di insufficienza e limitatezza nel funzionamento (es. scarso contatto con il mondo esterno). Ciò si risolve in un difetto metodologico di fondo che, pur traendo fondamento da una necessaria categorizzazione diagnostica, rischia di unificare condizioni e vissuti radicalmente diversi per amor di coerenza. Non di meno un recente studio di Fusar-Poli e colleghi (2022) evidenzia come gli stessi sintomi, appartenenti ad una comune categoria diagnostica psicotica, esperiti da più individui possano essere vissuti in modo radicalmente diverso, contrariamente da quanto sostenuto dalla psichiatria tradizionale. Voci come guardiani, voci come carnefici: tale dicotomia rende forse meno reale, significativa, la loro presenza? E non sarebbe auspicabile che tale ruolo potesse essere riconosciuto ed inserito in un quadro psicopatologico personale, calando così il generale nel particolare? Ciò che generalmente viene definito come allucinazione non si risolve in un’univoca condizione di sperdimento e frammentazione: la qualità affettiva ed esperienziale di tale vissuto è singolare, esclusiva, così come lo è l’individuo che lo vive. Fusar-Poli (2022) testimonia infatti come alcuni stati psicotici possano essere sperimentati come intuizioni epifaniche abbaglianti; delle verità ineffabili, queste, forse accessibili a forme di autoriflessione lontane dal senso comune ma non per questo dotate di minor spessore. Compiendo questo passo in più, riconoscendo dignità di narrazione ad una qualità esperienziale non categorizzabile, sembra possibile affacciarsi sull’ambiguità dell’esperienza psicotica abbracciandone interamente le dinamiche fondanti e particolari. E questo è tutto ciò che di auspicabile c’è in un processo di cura. 

Riferimenti:

Sass, L. (2022). Subjectivity, psychosis and the science of psychiatry. World Psychiatry, 21(2), 165.

Fusar‐Poli, P., Estradé, A., Stanghellini, G., Venables, J., Onwumere, J., Messas, G., … & Maj, M. (2022). The lived experience of psychosis: a bottom‐up review co‐written by experts by experience and academics. World Psychiatry, 21(2), 168-188.

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