La legge 180 non è giunta inaspettata; se lo fosse stata, non si sarebbe radicata.
Di fatto, già negli anni sessanta i manicomi avevano visto qualche timido segnale di risveglio, un inizio di critica a una realtà istituzionale non più da considerare immutabile e persino “naturale”. Tuttavia, assai scarsi i riflessi operativi: qualche tentativo di terapia di gruppo e attivazione di un embrionale servizio sociale.
Parlo, ovviamente, della Liguria, con le due principali strutture di Quarto e di Cogoleto.
In quest’ultimo la situazione era particolarmente stagnante, trattandosi di un “manicomio del manicomio”: infatti era destinato ad accogliere, per trasferimento da Quarto, pazienti cronicizzati, si suppone irreversibilmente, quindi non tanto da curare quanto da trattare o intrattenere in attività lavorative artigianali o agricole: divisione di compiti assistenziali suggerita a suo tempo da Griesinger. Solo una ridotta frangia di pazienti in fase acuta proveniva dalla Provincia di Savona, per buona sorte sprovvista di un suo manicomio.
Il crescente disagio dei Sanitari si era espresso fra l’altro in una collettiva protesta inviata alla Amministrazione provinciale, che additava una serie di gravi carenze. L’Amministrazione rispose con elogi alla relazione, ma non con concreti provvedimenti. In quegli anni il solo cambiamento è stato nelle competenze assegnate a Cogoleto, che cessava di accogliere solo gli “irrecuperabili” provenienti da Quarto poiché gli veniva riconosciuto un riferimento territoriale: il Ponente Genovese.
Nei primi anni ‘70 la lezione di Basaglia rende per le Amministrazioni impossibile una ulteriore inazione: nel 1973 quella genovese insedia una Commissione di studio composta dal Titolare della Cattedra di Psichiatria Franco Giberti, il Pretore ad orientamento progressista Pier Andrea Mazzoni, e lo stesso Franco Basaglia, che accetta ma non senza dialettizzare da subito il suo rapporto con il committente: “Non sono un luminare, sono usato come tale”. La Commissione propone, ispirandosi alla dottrina francese del settore territoriale, di cambiare radicalmente le competenze dei vari reparti: all’arcaica distribuzione per comportamento deve sostituirsi quella per area territoriale. Ciò inizia a trovare attuazione, anche sotto una spinta che proviene dalla base: si costituiscono organismi spontanei, i C.O.S. (Consigli Operatori Sanitari) che esprimono un vero fermento di stimoli e proposte. Sono composti da infermieri e da medici, tanto più attivi perché con le nuove assunzioni sono entrate persone motivate e decise a ottenere un vero cambiamento.
L’amministrazione di centro destra non si oppone frontalmente al movimento, ma lo tallona senza entusiasmo. Le cose cambiano nel 1975, quando si insedia una Giunta di sinistra, con Presidente il socialista Rinaldo Magnani e di cui Lamberto Cavallin fa parte nel ruolo chiave di Assessore all’Igiene e Sanità. Egli – con la collaborazione del compagno di partito e Assessore al Personale Bruno Berellini – governa il movimento, stimolandolo ma anche contenendone certi eccessi libertario – spontaneistici – “il C.O.S. non deve pensare di essere l’Esecutivo” – e curando la riorganizzazione che deve seguire il riferimento territoriale. Incoraggia, fra l’altro l’insediamento alla Direzione di Quarto di Antonio Slavich, già importante e fattivo collaboratore di Franco Basaglia.
E’ giunta infine – fine di un periodo ma nuovo inizio – la legge 180, che ha posto a Lamberto Cavallin, fra l’altro, l’importante ma complesso compito di una ridistribuzione del personale dei manicomi, da trasferire assegnandolo, possibilmente sulla base di scelte volontarie, ai nuovi Servizi Ospedalieri e ai Servizi Territoriali, in qualche misura preesistenti ma da rafforzare e ristrutturare radicalmente. Anni di entusiasmo ma anche di tensioni: chi con slancio si dedicava ai nuovi compiti, chi se ne sentiva inadeguato, chi proprio perciò preferiva restare a presidiare il morituro manicomio, ma sentendosi più che mai frustrato, quasi umiliato, invidioso e quindi distruttivo: chi temeva infondatamente la perdita del posto di lavoro, o più realisticamente un disagevole trasferimento di esso. Quindi la riassegnazione non è stata tutta su base volontaria: una notevole parte, soprattutto degli infermieri, vi è stata obbligata e fortemente contrariata.
Alla fine il cambiamento ha funzionato, e non era scontato: si trattava di passare da un vecchio ordine a uno nuovo, traversando una fase di confusione e difficoltà. Ne va dato atto a chi, come Lamberto Cavallin, lo ha saputo governare con una passione non contrastante con il necessario realismo.