Vaso di Pandora

Empatie ritrovate

Ugo Morelli, Edizioni San Paolo 2020

 L’Autore parla della pandemia come di una cartina di tornasole che evidenzia molte contraddizioni nel nostro modo di essere e coesistere; può aprire nuove prospettive illuminanti.   Ci ammonisce  che è “nostra responsabilità che le opportunità delle interconnessioni globali prevalgano sui rischi di distruzione e autodistruzione”. In un contributo assai denso, prende in esame le tante sfaccettature del problema, in un’ottica di complessità che consideri il possibile nascere di un ordine dal caos (o rumore?) secondo processi non lineari che riconoscano e accolgano le differenze: ottica vicina a quella di Edgar Morin che sullo stesso tema pubblica, quasi in contemporanea,  il suo “Cambiamo strada”: messaggio vicino a quello di Morelli che nel sottotitolo parla di un “mondo nuovo”

   Prospetta  una “coprogettazione gentile”, che porti a una “efficace elaborazione dei problemi e dei vincoli e la valorizzazione mirata delle risorse e delle possibilità”, contando anche su proprietà autoorganizzatrici del sistema. Essa  esclude la componente violenta insita in un’ottica ispirata a una rigida concezione dei rapporti causa – effetto unidirezionali. Può essere interessante ricordare che il termine “gentile” era prediletto  anche da un movimento fortemente critico nei confronti dell’esistente: la generazione beat.    Tutto ciò richiederà una “educazione sentimentale”. Termine proposto da  Flaubert, ma in tutt’altra accezione.

   Il primo e più evidente aspetto della attuale condizione è quello del cambiamento traumatico.

   Questa contingenza, pur in sé reversibile ( o almeno lo speriamo), è almeno un evento-sentinella: ci avverte che “aspetti essenziali e costitutivi della nostra socialità e umanità non sono scontati né certi”; mette di fronte a una situazione insolita, ammonendoci su quel che potrebbe accadere e sulla illusorietà della nostra onnipotenza. Non so se possa aiutarci il ricordare che qualcosa di peggio è accaduto  decenni fa, con la scoperta della bomba atomica, genio malefico che – a differenza del Covid – non potrà mai più esser ricacciato nella lampada.

  Torna d’attualità il severo ammonimento di Karl Jaspers in “La bomba atomica e il destino dell’uomo”: «In America dove oggi tutto viene deciso per il mondo nella realtà politica data, spero nelle antiche forze pie, eticamente radicali. Là, dove già qualche volta avvennero all’improvviso ravvedimento e conversione, ogni Americano, in vista della situazione mondiale, può sentire in essa la responsabilità, prima mai conosciuta, per il corso dell’umanità, il grande alito della storia mondiale e l’unico compito in essa. Allora potrebbe destarsi il grande impulso modificatore, che sottragga l’americano all’ottimismo superficiale, al fariseismo morale, al razionalismo del poter far tutto, e lo svegli a se stesso. Un popolo che fonda il suo stato con saggezza, che ha dato tali grandi uomini di stato, Emerson e James, poeti e teologi di alto grado, che è occidentale e pure più schietto di ogni altro popolo occidentale, poiché ha le radici nella emigrazione e porta in sé la vista aperta e libera sin dal principio, riesce forse a fare la cosa straordinaria, da cui dipende ora la decisione sulla vita e sulla morte dell’umanità».

  La situazione  odierna porta con sé anche una crisi delle coordinate spazio – temporali:  “”spazio ristretto, tempo dilatato, sembra non finire mai”. Al di là della classica distinzione fra tempo dell’orologio e tempo vissuto,  è da ricordare come la fisica moderna non consideri più il tempo come assoluto, come una scala di riferimento immutabile e indipendente dallo spazio, anch’esso non più da ritenere una coordinata in sé immutabile. 

  Dobbiamo allontanarci anziché avvicinarci, e ciò complica ulteriormente e in modo inaspettato il percorso del desiderio: e, come ricorda Morelli forse rifacendosi a Lacan, “è nel processo desiderante che ci facciamo e ci guastiamo”. E in queste ambivalenze “ tra sospensione e riattivazione dell’empatia…ci rendiamo conto di non essere non uno, ma molti”  (vedi Uno, nessuno e centomila) .

  E’ certo che vien meno, in molti casi, l’esperienza sensoriale del tatto che, ricordiamo, non solo comporta soddisfazione istintuale ma è strumento di conoscenza, di costruzione del reale. Diviene necessaria la rigida selezione di ogni presenza, con la dinamica propria di ogni emarginazione, su base razziale, socioeconomica o  altro e che spesso si riattiva nelle emergenze: ricordo come, proprio parlando di una pandemia, ce lo aveva mostrato E.A. Poe ne “La maschera della morte rossa”. A proposito, maschera e mascherine è il tema di uno dei capitoli: “Ora si tratta di vedere le persone dietro le maschere”. Aspetto trattato anche da Di Blasio in “Teorie e pratiche dello sguardo”.

   E del resto la pandemia ci porta a sospettare anche di noi stessi: ogni segno di malessere può essere un indicatore fatale: è dovunque, e  colpisce la centralità del nostro vissuto. Come sottolinea Donatella Di Cesare nel suo recente “Virus Sovrano?”, “colpisce il respiro che è l’immagine stessa della vita: vivere è tirare il fiato. E il fiato è l’anemos, l’anima stessa. Catastrofe del respiro”. Mi vien da ricordare che ciò paradossalmente avviene in un’epoca in cui si era parlato di “corpo trionfante” esibito, ammirato, curato: protagonista di seduzione, oggetto di mille cure estetiche e dietetiche. Oggi è un corpo mortificato, anche nelle sue valenze sessuali. 

  La solitudine è definita un “esperimento di vita e di morte”, dominata da un nuovo silenzio. Certo,  in esso c’è anche un valore: ricordiamo il silenzio in analisi, le pause di silenzio in una sinfonia. Ma si tratta appunto di pause: il silenzio protratto può divenire distruttivo, come in certe coppie. Come si esprime Borgna in “Parlarsi”, “le parole sono prigioni sigillate dal mistero, e dovremmo esser capaci di aprire queste prigioni, di togliere loro i sigilli, di farne sgorgare i significati…“   Possono così  “far del bene…cambiare la vita…curare”.

  Viviamo dunque una deprivazione, che tuttavia può essere anche una pausa di riflessione con  valenza evolutiva: per Bion  il pensiero è figlio della deprivazione e della depressione. E in qualche modo Xavier De Maistre additava un tempo questo aspetto nel suo “Viaggio intorno alla mia camera”. Camera e casa si fruiscono dunque di più, e Schinaia ne indica le ricadute. L’invito a restare in casa e la trasformazione delle riunioni, di lavoro e no, in incontri on line, trasformano i caratteri della casa che diviene luogo  meno intimo e personale, sfumando la distinzione con il posto di lavoro e levando spazio ai momenti di vita più tipicamente domestici. Da quella mancanza può scaturire una disposizione alla sobrietà e una cura delle relazioni senza filtri. Anche sotto questo aspetto, dunque, la pandemia può avere due valenze opposte.  

  Un aspetto a sé ma non secondario viene indicato da Ugo Morelli nella mortificazione della mano e della sua gestualità, così importante   in momenti cognitivi come  indicazione e calcolo: il nostro sistema di calcolo è decimale perchè le dita sono dieci, e quando parliamo del “digitale” facciamo riferimento a digit (dito e anche cifra). E’ protagonista nella creazione e utilizzo di strumenti, parte essenziale della nostra evoluzione culturale, espressione della nostra “propensione, come individui della specie umana, a non coincidere mai con noi stessi e con l’esistente”. E quanto alla relazionalità… sono un’area cutanea privilegiata, fra la più implicate nelle situazioni di rapporto: bacio, schiaffo, carezza, pugno, masturbazione anche reciproca. Sono protagoniste dell’affresco michelangiolesco sull’incontro fra Dio e Adamo.  Un momento particolare è la stretta di mano, segnale di accordo: ricordiamo la sua origine, forse  l’esigenza di dimostrarsi disarmati; e il divieto fascista, forse dovuto al fatto  che essere armati (illusoriamente e platealmente) era divenuto un dovere. 

  Il perseguimento dell’immunità conduce anche al reciproco isolamento già messo in atto dalle varie nazioni in  risposta a minacce vere o presunte come l’immigrazione, e oggi comprensibilmente esasperato dalla minaccia pandemica ma da sempre incentivato da “un illusorio progetto  di linearità e completezza”,   che tende a escludere ciò che non vi rientra e dunque l’altro da noi e anche – aggiungo – un futuro ignoto e dunque sfuggente al controllo. Questo progetto semiconsapevole si manifesta in tante opere di consumo:  libri, drammi teatrali,  film il più delle volte concludono la vicenda come se non avesse un seguito, più o meno con un “e vissero felici e contenti”. Salutare  il richiamo di Pirandello: “la vita non conclude, non può concludere”.

  Ciò è collegato al problema del limite.  Questo, lungi dal costituire una mera mancanza, in realtà definisce e dà forma all’oggetto.  E’ dunque necessario, ma non deve divenire ostacolo insormontabile a contaminazioni e scambi: potrei paragonarlo a una membrana semipermeabile.      

  Un importante aspetto che aiuta a definirci ma che può isolarci è quello della lingua madre: come rileva l’A., siamo preda di questo  nostro linguaggio, difficilmente ne impariamo altri. Da Wittgenstein: “i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo”. Aspetti positivi ne sono: solidarietà, condivisione, coesione. Negativi: monotonia nel ripetere le stesse cose, per mancanza di apporti.

 E’ utile ricordare, credo, che l’importanza del fattore linguistico ha avuto le sue vicissitudini storiche. Per i Greci, politicamente divisi, la lingua era però fattore unificante: “barbari” erano quelli che non la conoscevano, bal-bettavano.  Nel medioevo, minore il peso politico  del linguaggio: non era affatto uno scandalo che popoli di lingue diverse obbedissero allo stesso sovrano, conquistatore o erede che fosse,  in un contesto di sovrapposizione fra il concetto di sovranità  e quello di proprietà. La fine di questo stato di cose è giunta con  lo sviluppo degli Stati nazionali, fondati su una pur incompleta unità linguistica, in un lunghissimo percorso: passano secoli fra la nascita dei primi – Francia e Inghilterra  –  e quella degli ultimi: Germania e Italia. Certo, il discorso è complicato dai c.d. dialetti, lingue divenute un po’ alla volta minoritarie perchè lo Stato progressivamente ha imposto  una sempre maggiore unità linguistica, rafforzativa di quella politica.

 Centrale nella riflessione dell’Autore la necessità di ripensare una politica dello sviluppo: i nostri sono  “Modelli di sviluppo distruttivi e arbitrari rispetto a ogni criterio di sostenibilità”. Non c’è dubbio su ciò, e questo non è il primo ammonimento che riceviamo:  mi vengono in mente l’Aldous Huxley del suo “Brave New World”; e Thoreau che in Walden cercava una via di salvezza individuale. L’aggressione sistematica alla foresta amazzonica e quella ulteriore violenza distruttiva alla Terra che è l’estrazione di petrolio da sabbie bituminose sono clamorosi  aspetti di quell’incessante sviluppo senza limiti che pare obbligato: ci appare ormai  un obbligo l’incessante crescita del PIL. Ma c’è da chiedersi se ciò sia insito nella natura del capitalismo, se sia la sola alternativa reale ( a quanto pare inventata da Henry Ford) alla continua crescita del pauperismo preconizzata da Carlo Marx.  Si ripresenta comunque il dolore di tante persone, che bene è fatto proprio dall’Autore: la pandemia ha esasperato le differenze sociali anche sotto questo aspetto. Il discorso diviene politicamente molto impegnativo, complicato com’è dal dissidio fra nazioni a elevato grado di sviluppo e benessere e quelle ancora in fase di selvaggia accumulazione primitiva, che trovano ingiusto sottoporsi a limitazioni ignorate a suo tempo da potenze che oggi, ormai ricche e sazie, vogliono imporle ad altri.

  Questo modello di sviluppo comporta, è evidente,  un allargarsi della forbice fra ricchi e poveri, e anche ciò – sottolinea l’Autore, con viva partecipazione –  è sottolineato dalla pandemia: nove lavoratori su dieci non sono impiegabili in quel lavoro a distanza che certo non dobbiamo considerare una panacea.  Esso oltre tutto ha un alto costo emotivo, sostituendo la freddezza di uno schermo a una presenza viva e respirante (già…).  Connesso a ciò il problema del lavoro: rifacendosi a Marx, l’Autore denuncia la sua riduzione a merce da vendere e comprare, mentre è o dovrebbe esser spinto dalla “intersoggettività riconoscente e la ricerca del bene vicendevole” ; avere un significato relazionale, emancipativo, realizzativo. Potrei aggiungere che, almeno quando non è fonte di piacere immediato, il lavoro ha a che fare con la elaborazione depressiva, intesa come capacità di rinviare e attendere la soddisfazione.

 La critica alle attività on line trova spazio, pur in forma meno drammatica,  anche nei rilievi sulla educazione a distanza, anche perchè “non c’è atto conoscitivo che non abbia la sua radice nella paticità”. E’ certamente vero, ma trovo un motivo di consolazione pensando che  a suo tempo l’adozione della scrittura può avere avuto analogo aspetto di criticabile deprivazione: leggere l’Iliade doveva essere ben diverso dall’ascoltare  la viva voce di Omero o di chi per lui. Del resto ancor prima, rileva Ugo Morelli, c’è stato un qualche avvicendamento nei modi di comunicare: sia nell’ontogenesi che nella filogenesi la parola ha sostituito in larga parte il contatto fisico.

  Un aspetto delicato e attualmente emergente è il rapporto con paesaggio e ambiente, da considerare non come oggetti inanimati di cui fruire, ma come “proprietà emergenti nel punto di connessione fra mondo interno e mondo esterno, con la mediazione dell’immaginazione… …paragonabili alla lingua madre… dobbiamo quindi porci in comunione con l’ambiente, non sotto o sopra”….creare una nuova mitopoiesi basata sul dialogo uomo – natura… L’altro che conta per la nostra vita è tutto il sistema vivente” (e, potrei aggiungere, anche  non vivente); ancora una volta, una logica scissionale non ci aiuta.

  La domanda di sempre: Che fare? Che fare in questa “crisi di immaginazione e di possibilità di futuro”?

   L’Autore ne indica  tre risposte possibili. Continuità: ripartiremo come prima. Ne è parente la Negazione: pandemia come incidente transitorio. Rottura: è una occasione per un pur faticoso ma auspicato cambiamento; non c ‘è bisogno di dire che questa è l’alternativa da scegliere. Mi pare che la parola “rottura” sia parente della parola rivoluzione; e questa,  richiede sempre due elementi: una condizione di disagio divenuto ormai intollerabile, e un orientamento ideologico, possibilmente progettuale che, entrato nella coscienza collettiva, indichi una via “altra”: per la rivoluzione francese ci sono voluti Voltaire e Locke più il default dello Stato; per quella russa, Marx e Lenin più una guerra disastrosa. Parlo di eventi sanguinosi, ma credo che il discorso valga anche per i rivolgimenti pacifici, ammesso che siano possibili.

 Ma di fatto l’ottica di Morelli è un po’ diversa da quella di una semplice alternativa: invita a mantenere aperta la tensione, più che cercare un equilibrio una volta per tutte: dunque, “abitare l’ambiguità”, l’incertezza. Parla di una “stratificazione dell’essere nel divenire”  (ci vedo un possibile richiamo alla dialettica Parmenide – Eraclito, uno dei fondamenti della nostra cultura).  Cambiamento e non cambiamento: Ugo Morelli ne ricorda esempi opposti ed estremi: da un lato, Dr Jekyll e  Zelig: dall’altro l’Ossessivo che distrugge gli specchi per non vedere il cambiamento; e ricorderei pure Dorian Gray.

    Si riattualizza il problema libertà vs sicurezza. La possibilità di cambiare si collega al problema della libertà, che spesso fuggiamo, ambendo a divenire sudditi: problema esaminato, fra gli altri, da Sartre. “ La fedeltà può trasformarci in carnefici volenterosi”, come nel nazismo. Ma sappiamo per esperienza che la libertà può venir compressa anche senza ricorso alla repressione aperta. L’immaginario consumistico finisce col lasciare il compito ai dominatori: l’utente di supermarket compra secondo linee dettate da altri, anche se si sente libero di scegliere.

  Torniamo, con l’Autore, al titolo. Si parla di empatie ritrovate   non in senso letterale, poiché “l’empatia non si perde né si ritrova”: ma si tratta di ritrovarne il valore, spinti da una accresciuta consapevolezza e  anche tramite un “Umanesimo di secondo grado” e una “terza educazione” che dovrà seguire alla prima, endofamiliare, e alla seconda, scolastica: una “educazione sentimentale”.   Le dimensioni politico-economico-sociale, psicologica collettiva e individuale, pedagogica si armonizzano qui in un messaggio allarmato ma non pessimistico, anzi ricco di indicazioni costruttive, a carattere dinamico: “ogni tentativo di ridurre la tensione ad opera compiuta è destinato a fallire”.

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