Mi sono chiesta più volte se portare questa mia esperienza così personale, ma credo che sia trasformativa per me l’idea che possa essere uno spunto di riflessione sul messaggio di cura che stiamo mandando come operatori sanitari, professionisti che si occupano della presa in carico di esseri umani.
Vi racconto una parte della mia giornata in ospedale dove ho dovuto fare un intervento di raschiamento, termine orribile per definire la procedura secondo la quale viene aspirato dall’utero l’embrione.
Ore 7.00 appuntamento in day surgery, in sala d’attesa il mio sguardo si sofferma sulla ventina di signori anziani in attesa di essere chiamati, senza aver né bevuto né mangiato. Ore 11.00 mi fanno un prelievo. Ore 12.00 mi chiamano per l’intervento. Il mio compagno non può entrare nella sala di reparto come familiare, per via delle normative Covid. Questo inoltre è un intervento di routine, raschiano via tutto, “anestesia qualche ora e via ti fai venire a prendere” questo ti dicono.
Non c’è tempo, non c’è luogo, non c’è spazio.
Un’infermiera mi accompagna nella stanza dove potrò cambiarmi e aspettare, mi dice che probabilmente non sarà la stessa stanza dove mi risveglierò, quindi di mettere tutte le mie cose in un angolo. Mi sento disorientata e preoccupata nel non sapere dove mi risveglierò. Mi viene dato un grembiule con l’indicazione di cambiarmi e accomodarmi sul letto.
Si costruisce una rete tra compagni di sventura: la ragazza che non ha mai fatto un intervento costretta a denudarsi ai piedi del mio letto perché non ci sono posti, la signora appena risvegliata dolorante che spera di tornare presto al calore di casa.
Dopo qualche ora ho freddo, quando il mio corpo inizia a tremare lo faccio presente all’infermiera mi risponde un po’ svogliata e scocciata che sarà di ritorno a breve. Passano dieci minuti, inizio a pensare che si sia dimenticata. Lacrime di sconforto scendono dagli occhi stanchi.
Ore 14.00 un infermiere viene a prendermi. Vengo portata in una stanza dove l’anestesista mi droga e non sento più nulla, i muscoli si distendono, una sensazione di pace e poi buio.
Una ragazza ad alta voce esclama “Cara, hai un assorbente per la signora che se l’è scordato?” Parla con me? Ci conosciamo? Mai viste prima! Ma come sto? Come è andato l’intervento ? Dove sono? Chi sei?
Ancora un po‘ stordita dall‘ anestesia, vado in bagno e lo trovo sporco di sangue. Svuotando la padella della mia vicina di letto, l’infermiera non avrà ripulito. Probabilmente non è il suo compito, forse non ha avuto tempo.
Non c’è tempo, non c’è luogo, non c’è spazio.
Non voglio generalizzare, esistono anche esperienze bellissime di cura e professionisti sanitari molto attenti.
Penso però anche alle storie che ascolto nel mio studio: una ragazza di 16 anni ricoverata per una notte nel reparto di psichiatria dopo avere ingerito dei sonniferi, voleva urlare il suo dolore e le era sembrata l’unica via per gridarlo a tutti. La immagino, spaventata, disorientata, non ascoltata, colpevole e sola nel freddo buio. Risento dentro di me le parole di Borgna scritte nel suo libro “il fiume della vita. Una storia interiore”: “..non è possibile fare psichiatria se non ci si educa a nutrire la nostra vita di ascolto e gentilezza, di saggezza e tenerezza e anche ad abdicare ad ogni forma di non curanza e di indifferenza, di freddezza emotiva e di distratta lontananza, di disattenzione e di frivolezza”.
Io credo che queste parole debbano essere estese a tutti gli operatori sanitari, diventa necessario educare all’ascolto, alla gentilezza, la tenerezza, la saggezza e ad abdicare ogni forma di indifferenza, non curanza, disattenzione.
Non si deve confondere il trovare la giusta distanza che permette la presa in carico, con la freddezza emotiva. Ho sentito insegnanti scoraggiare laureandi di medicina o studenti di infermieristica perchè troppo sensibili, al contrario va loro insegnato a gestire questa risorsa preziosa.
Molte delle storie, che ho avuto il privilegio di raccogliere a partire dalla mia esperienza professionale nei reparti di oncologia alle mura del mio studio, riportano una fatica da parte di chi lavora in ambito ospedaliero nella comunicazione tra colleghi, tra reparti, una mancanza di attenzione ai vissuti emotivi del paziente e alcune volte, mi duole dirlo, delle basi dell’educazione. Ho sempre accolto questi racconti con dispiacere e un senso di impotenza. Io stessa mi sono ritrovata, come psicoterapeuta, a dovermi accontentare di vedere i pazienti nello sgabuzzino dell’ospedale perché la stanza per i colloqui era occupata e dovevo dirigermi insieme al paziente nei sottofondi dell’ospedale, molte volte mi sono sentita in difficoltà per l’immagine sbagliata di cura che stavamo mandando. La forza e il riconoscimento l’ho sempre sentito nell’umanità, nelle mani strette in punto di morte di persone sole e spaventate, nei grazie, negli occhi lucidi, nei sorrisi, nelle vite ritrovate.
Grazie Giulia, le tue parole risuonano in me come un tamburo. “Non ce la farai mai a fare medicina” mi disse una collega, non ancora collega, e prossima alla pensione in un mio momento di difficoltà. Medicina l’ho fatta. E praticata. Spesso rivedo in giro la collega, ancora lei, ancora in pensione e vorrei dirle: “avevi ragione. Ora sono quello che volevo essere, una terapeuta”. A noi il compito di riportare un luogo, un tempo ed uno spazio.