Vaso di Pandora

E il gallo cantò tre volte

Nell’angosciante ultima notte di quella che i Cristiani ritengono essere la vita terrena di Gesù di Nazareth, egli viene portato in catene davanti al Sinedrio per essere giudicato riguardo alle sue “eresie”. I suoi discepoli, spaventati dalla punizione che avrebbero subito in caso di cattura, si sono dispersi, mentre il loro Maestro veniva condotto in catene davanti ai suoi aguzzini. Ma non tutti ce la fanno a girare la faccia dall’altro lato: Simone detto Pietro, uno dei più fedeli e intimi amici di Gesù, si aggira pieno di rimorso nei paraggi della residenza del sommo sacerdote Caifa, dove quest’ultimo sta interrogando il suo Rabbi. Indeciso sul da farsi e tormentato, spaventato anche dal fatto di aver aggredito con una spada una delle guardie del Tempio nel tentativo di liberare Gesù, egli è combattuto tra la promessa fatta a quest’ultimo di condividerne il destino e l’umana paura di morire soffrendo. E proprio lì, mentre egli nel cuore sta meditando su questo, che dei passanti lo identificano come uno dei seguaci di quello strano predicatore errante. Subito, potremmo dire quasi in automatico, Pietro prende con veemenza le distanze da Gesù: egli, afferma convinto, non è dei suoi, stanno prendendo un abbaglio. Anche di fronte alle insistenze degli altri presenti che lo associano al Nazareno, Pietro nega e ribadisce, fino a urlare addirittura di non conoscerlo. Solo allora, al canto di un gallo, l’Apostolo ricorderà le parole del suo amico e Maestro – quando il gallo canterà tu mi rinnegherai tre volte – e scoppia in un pianto disperato.

Qualche giorno fa, una giovane madre ha strangolato il suo bimbo di un anno, approfittando di una momentanea assenza degli altri familiari. Circa un anno fa, un ragazzo si è suicidato in diretta web assumendo un cocktail di farmaci comprato in rete. Ormai molti anni fa, una giovane donna strangola la cuginetta adolescente a seguito di una lite per futili motivi. Cosa c’entra questo con il Rinnegamento di Pietro descritto dai Vangeli? Nulla, e infatti lo scopo di questo scritto non è parlare di cosa possa essere scattato nella mente di quelle persone – Dio solo lo sa – ma analizzare quello che è successo dopo, attorno a queste esperienze.

La mia riflessione parte da una caratteristica che si palesa sempre immancabilmente nei casi di cronaca nera, e in particolar modo in quelli più efferati, ovvero la corsa alla eviscerazione mediatica delle cause dell’evento. Mi rendo conto di aver usato un termine forte, che richiama forse esso stesso un delitto efferato, ma credo possa rendere appieno questa ricerca di dettagli, spiegazioni e cause – effetto che a volte sembra mosso più da un frenetico ricercare il senso oggettivo di un evento che dal tentativo di informare l’utenza su ciò che accade nel mondo.

A mio avviso, ciò che può accadere in questi casi è essenzialmente quello che è accaduto a Pietro nel cortile di Caifa: per paura, prendiamo le distanze da ciò che ci appartiene nell’intimo. Pur di non essere travolti dall’angoscia e dall’orrore per ciò che ci aspetta se palesassimo davanti a tutti ciò che abbiamo nell’animo, ci chiudiamo in un forte diniego, attribuendo totalmente all’Altro delle caratteristiche che sappiamo riguardarci.

Purtroppo, a complicare il quadro, ciò di cui stiamo parlando in questo caso differisce da ciò che provava Simon Pietro. Mentre l’Apostolo, pur sapendo che Dio viveva in lui tramite lo straordinario incontro con Gesù, negava tale relazione per paura di essere ucciso dai suoi nemici, la presa di distanza che si fa spesso dall’assassino o suicida di turno è inconscia, ovvero non consapevole, il che la rende estremamente pericolosa a livello psichico.

Come Jung amava ribadire, il mezzogiorno è il momento più pericoloso della giornata perché le ombre non si vedono, e quindi è proprio lì che siamo più vulnerabili, quando pensiamo che non vi siano pericoli ad attenderci. La storia è piena di battaglie perse da un generale arrogante che ha sottovalutato la tenacia dell’ultimo gruppo di nemici a corto di armi e munizioni. Ma da cosa si protegge la nostra psiche, quando mettiamo una distanza tra “Noi” e “Loro” oppure quando cerchiamo in maniera morbosa di tirar fuori tutti i dettagli possibili da un tragico evento per gettarli in pasto agli ascoltatori? A mio avviso, dal riconoscere che l’Altro che ha commesso qualcosa di immorale, indecente, efferato, siamo noi. Noi possediamo in nuce tutto ciò che serve a farci diventare potenziali aggressori: come Vittorino Andreoli ha sottolineato in un suo scritto, dovremmo non chiederci “perché ammazziamo” ma piuttosto “perché non lo facciamo”.

Tuttavia, per il nostro Io accettare questa tremenda verità non è semplice, e qui entrano in campo le difese, come il diniego (ciò che ho visto nell’altro non mi appartiene affatto) e l’intellettualizzazione (ha ucciso/si è ucciso perché era malato/pazzo/tossicodipendente etc.). Gaetano Benedetti, parlando dello stigma sociale verso le persone con psicosi, sottolineava come il nostro Io fosse così terrorizzato dal contagio psichico da provare una innata repulsione per la psicosi, da scatenare su questi pazienti una vera e propria “aggressività sociale”, pur di allontanarli dai cosiddetti “sani”. Il senso di repulsione per la minaccia che il paziente psicotico rappresenterebbe per il nostro equilibrio psichico, nel suo mostrarci il lato più primitivo della mente, causerebbe un vissuto così aggressivo verso di loro che alla fine paradossalmente verrebbe interiorizzato proprio dai pazienti stessi, che inizierebbe a considerare l’odio sociale rivolto verso di lui non come un sentimento esterno a sé, ma come una caratteristica propria. Vale la pena citare per esteso le bellissime parole di Benedetti: << È, questo trapianto di aggressività, un fenomeno mostruoso quale può avvenire anche ai danni di una minoranza politica, di un individuo sano dai confini egoici ben delineati, ma che accade senza che ce ne accorgiamo nel trattamento dei pazienti schizofrenici, veri agnelli immolati all’aggressività collettiva>>. (pag.90) Non si può qui non pensare anche alle tragiche vicende di gogna mediatica, che hanno spinto al suicidio e alla depressione degli innocenti che erano stati eletti come “colpevoli” dai mass media e dall’opinione collettiva nell’urgenza di proiettare su un altro l’assassino dentro ognuno di noi per prenderne le distanze. Il pensiero, qui, non può non andare ad Enzo Tortora, suo malgrado simbolo esemplare di questa dinamica.

Ma cosa fare quindi? Bisogna tacere su ogni caso di cronaca nera? Dobbiamo smettere di porci domande? Niente affatto, questo è inevitabile. Bisogna piuttosto, come suggerisco spesso ai miei pazienti con ruminazioni ossessive, spostare il focus dell’attenzione su altro, più che correggere il pensiero. Come afferma Maurizio Pompili, psichiatra esperto in suicidologia, i media dovrebbero evitare di indugiare sui particolari del delitto o sulle speculazioni sulla vita privata della persona che ha commesso il fatto -comprese le innumerevoli foto e post sui social dei coinvolti) – così come dovrebbero evitare titoli altisonanti e linguaggio da scoop. Questo perché il rischio non solo è quello di cercare di dimostrare che noi “non abbiamo nulla a che fare” con certe dinamiche, ma anche di suggestionare persone vulnerabili al tema favorendo un rischio di emulazione.

L’alternativa sarebbe, sempre secondo Pompili, quella di porre l’accento nella comunicazione via media sulla prevenzione, sulle alternative disponibili e sulle opportunità di aiuto che vi sono in caso di fragilità emotiva o di crisi esistenziale. Questo suggerimento, a mio avviso condivisibilissimo, non negherebbe il fenomeno in sé e l’Ombra, ma si orienterebbe sulle strategie che danno la possibilità alla persona di mettere in dialogo le proprie parti, al fine di impedire un acting out o nella maggior parte dei casi una sofferenza psichica importante, e nei casi più drammatici, garantire alle vittime e ai colpevoli quel giusto oblio che meritano, sia per la drammaticità dell’evento sia per potersi concentrare sulla possibilità riabilitativa loro offerta in caso di crimine violento.

Accettare il fatto che la nostra psiche non è monoteistica, ma politeistica – parafrasando Hillman – è il solo modo di riconoscere sia la diversità sia la somiglianza con l’Altro, e quindi di mettere in dialogo le varie parti affinchè cooperino per il bene comune, più che mandare “in castigo in camera loro” gli ospiti che reputiamo sgraditi. Solo dando un ruolo ad ogni “personaggio in cerca d’autore” (Pirandello andrebbe fatto leggere agli adolescenti e non molto di più) possiamo mettere in scena il grande teatro della nostra esistenza. E solo così, come Pietro, possiamo alla fine assumerci la responsabilità di non rinnegare ciò che ci appartiene, anche se rischioso, a alla fine intraprendere il nostro cammino verso il nostro destino, quale che esso sia, con tutto ciò che ne comporta.

Note Bibliografiche
1

Andreoli, Vittorino Voglia di ammazzare: analisi di una pulsione /Milano : Biblioteca universale Rizzoli, 2002.

2

Benedetti, Gaetano Alienazione e personazione nella psicoterapia della malattia mentale / Roma : Fioriti, 2015.

3

Hillman, James Re-visione della psicologia / Milano : Adelphi, 2008.

4

Jung, Carl Gustav Jung parla : interviste e incontri / a cura di William McGuire e R. F. C. Hull; traduzione di Adriana Bottini Milano : Adelphi, 2009.

5

Pompili, Maurizio La prevenzione del suicidio / Bologna : Il mulino, 2013.

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Commenti su "E il gallo cantò tre volte"

  1. Ogni volta in cui diciamo che ” i media dovrebbero evitare di indugiare su…” stiamo declinando le nostre responsabilità e immaginando un mondo disegnato dalla psichiatria. Sarebbe più utile, invece, ricordare al grande pubblico che la psichiatria ha confini precisi, che non è tutto evitabile, prevedibile. Vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio”, scrive Camus.

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  2. Non riesco molto bene a intendere il collegamento tra il consiglio che lo psichiatra citato nel testo da e il declino della responsabilità.forse perché sembra che sia delegando ai media il compito di gestire un’informazione psicologicamente corretta? In questo caso si spera sempre che semplicemente l’empatia prevalga sul fare notizia a tutti i costi.descrivere il contenuto delle chat di un ragazzo mentre si sta uccidendo con un farmaco oppure mostrare il video di una ragazza verosimilmente in stato alterato di coscienza che vaga per i corridoi prima di buttarsi dalla finestra non credo sia la cosa più edificante da dire o fare sull’argomento. Non so come diversamente si possa intervenire se non aprendo una discussione oppure, nel privato, singolarmente con ogni paziente

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