Nel corso dell’ultimo anno, mi sono recato in due Comunità Terapeutiche facenti parte del DSM della Asl Roma 1, in qualità di volontario, in base all’esistenza di una Convenzione tra la Asl Roma 1 e il LiPsiM (laboratorio italiano di psicoanalisi multifamiliare), in relazione a due differenti richieste: la prima da parte degli operatori della CT Tarsia, di via Piatti, dove avevamo cominciato a usare il Gruppo di Psicoanalisi Multifamiliare (GPMF) nel 1997; la seconda da parte della responsabile della CT Primavalle, due case popolari situate in una borgata di Roma, a Primavalle, dove Massimo Marà si trasferì, nel 1980, insieme a tutti i pazienti ricoverati nel padiglione del Santa Maria della Pietà, di cui era responsabile, uscendo con tutti loro dall’OP e occupandole.
Due luoghi importanti: il secondo storicamente, in quanto fu un evento di rottura, da molti punti di vista, dell’ordine prestabilito delle cose, così come erano state fino a poco tempo prima.
Il reinserimento nella società dei pazienti
Da un lato era la dimostrazione pratica che i pazienti potevano tornare a vivere dentro la Società, che potevano seguitare ad essere curati, anzi che potevano essere curati meglio nel tessuto sociale che non quando erano relegati nell’OP, dall’altro veniva introdotta con forza l’idea che, per curare le malattie psichiche gravi, fosse necessario prendersi cura dei pazienti, almeno per un certo periodo, 24 ore su 24, costruendo per loro, finalmente, un luogo in cui poter recuperare un funzionamento come tutti gli altri.
Da questa esperienza, nacque l’apertura della Comunità Terapeutica privata-convenzionata Maieusis, che in seguito si sdoppiò in Maieusis e Reverie, che fecero capire a tutta la Psichiatria romana che, se si voleva curare gli psicotici, che prima finivano in OP o in Clinica privata per rimanerci o che seguitavano a vivere fuori curati soltanto farmacologicamente, era necessario costruire un contesto che permettesse loro di sperimentare rapporti sani e non patologici, come era capitato loro a casa.
L’apertura di una CT di Roma in ambito pubblico
Questa considerazione ci condusse, dieci anni dopo, a proporre di aprire una CT in ambito pubblico. Fummo tacciati di voler riaprire l’OP, ma andammo avanti lo stesso e fummo premiati dalla fortuna di conoscere Jorge Garcia Badaracco poco prima dell’apertura della CT Tarsia, nel 1997, che ci fece capire che non bastava curare bene i pazienti in CT, ma che fosse necessario occuparsi anche dei familiari per preparare, tutti insieme, il rientro a casa dei pazienti, dopo la permanenza in CT, come abbiamo ampiamente sperimentato nel gruppo di CT Redancia.
Nella CT di Primavalle, si è trattato di iniziare un’esperienza ex-novo, che ci ha messo a dura prova, vista la gravità dei pazienti lì ospitati e che, fino a quel momento, era stata effettuata una non sufficiente sensibilizzazione dagli operatori, esterni e interni, nei confronti dei familiari, nella direzione di cominciare a pensare alla malattia del figlio e, soprattutto, alla sua possibile evoluzione come a qualcosa che li riguardava direttamente e, rispetto alla quale, il loro atteggiamento, più o meno partecipe, avrebbe svolto un ruolo importante.
Si è trattato, quindi, di svolgere un lavoro di sensibilizzazione e coinvolgimento dei familiari, da un lato e degli operatori, dall’altro, per richiamare anche loro ad una maggiore convinzione circa le proprie capacità di poter influire sulla trasformazione delle situazioni, con il supporto dei pazienti che, per primi, avevano capito che il GPMF poteva essere utile per loro.
A questo punto il mio compito è agli sgoccioli, anche perché alcuni operatori partecipano al Corso di Formazione in Psicoanalisi Multifamiliare organizzato anche quest’anno dalla Asl Roma 1, dove possono confrontare la loro esperienza con altri operatori in condizioni simili, sotto la guida di operatori esperti, Federico Russo e Alessandro Antonucci e attivare delle visite in gruppi che si tengono in altre strutture o ricevere le visite di operatori provenienti da esse.
Il mio ritorno alla CT Tarsia di via Piatti
Nella CT Tarsia di Roma, di via Piatti, viceversa, si è trattato, per me, del ritorno in una realtà ben nota, su richiesta di un gruppo di infermieri, con alcuni dei quali avevamo aperto la CT, ventisei anni orsono.
MI ha fatto molto effetto questa richiesta. L’ho vissuta come il riconoscimento di un’attività che aveva permesso loro di capire la materia, complicata e difficile, con cui si erano trovati ad avere a che fare, in molti casi senza nessuna esperienza sul campo precedente e che avrebbe potuto condurli, con una certa facilità, come sappiamo, a “tirare i remi in barca” molto presto, riducendo progressivamente il loro impegno e la loro motivazione.
Viceversa, erano ancora lì a chiedermi di riprendere il GPMF insieme, disponibili a rimettersi in gioco, come avevano dimostrato di saper fare tanti anni fa.
Ne è scaturito un clima di grande disponibilità a riflettere, che si è ripercorso nei confronti di ospiti e familiari, contribuendo al raggiungimento della condivisione di un’atmosfera di curiosità, senza esimersi dalla possibilità di mettersi in discussione e di soffrire.
Quanto si è verificato, mi ha fatto riflettere, ancora una volta, sull’importanza del clima che si riesce a costruire. In questo caso non ci sono da convincere operatori scettici e/o familiari distaccati e poco sensibili.
Il livello di convinzione, diffuso tra gli operatori, a proposito della opportunità di fare uno sforzo per capire, che tutto quello che sembra che ci si trova di fronte meriti un approfondimento, che sarebbe necessario avere la pazienza di permettere a tutti, nessuno escluso, di esprimere quello che ritiene giusto, etc. etc., fa sentire il suo peso: tutti i partecipanti entrano progressivamente in questo ordine di idee, oltre agli operatori.
Partecipazione e consapevolezza nelle CT di Roma
Ne deriva, come accennavo, un clima di grande partecipazione e la consapevolezza di stare tutti sulla stessa barca: che quello che fa ciascuno può risultare molto importante per gli altri.
In particolare è divenuto, pian piano, sempre più chiaro che il contributo più importante che ognuno può dare al gruppo e alla propria vita sia costituito dalla opportunità di mostrarsi senza veli, per quello che si è, nella propria autenticità. Che è fatta di parti buone e meno buone o anche cattive e invidiose. Che si tratta di capire che ognuno porta dentro di sé un bagaglio articolato e che la cosa migliore da fare è costituita dal fare ricorso alla sincerità, confidando nella possibilità di essere capito, se necessario perdonato, di stringersi la mano e di andare avanti.
Operazioni complesse che non riguardano solo i pazienti, rispetto alle quali, viceversa, i più coinvolti possono essere i genitori o il ricordo di fatti che hanno riguardato le generazioni precedenti e che si sono si sono riverberate fino ai genitori.
In realtà, questa CT di Roma è divenuto per me un luogo di apprendimento: non si tratta di pensare agli altri, visto che ognuno già lo fa per conto suo, in genere, ma di potermi concentrare su di me, prendendo spunto dalle riflessioni, profonde, portate dagli altri.
Le storie dei pazienti
In una delle ultime volte una paziente ha parlato del fatto che, quando era piccola, il padre le faceva capire che per lui era importante che lei gli rinviasse che l’opinione del padre avesse un senso. La figlia commenta che, secondo lei, lui non aveva bisogno della sua opinione ma lei, pur di accondiscendere alla di lui richiesta, corrispondeva alle sue aspettative.
Il gruppo va avanti con altri contributi, in particolare di un ragazzo che parla di una situazione molto dolorosa, in cui lui si era trovato a sostenere sia il padre, profondamente sofferente,che la madre, che si occupava di lui. In entrambi i casi con grande sofferenza personale.
Dopo un altro po’ di tempo, interviene il padre della ragazza intervenuta in precedenza, che conferma quanto riferito dalla figlia, raccontando di essersi sentito abitualmente messo in discussione in casa, sia dalla moglie che dal figlio, per cui far ricorso al parere della figlia aveva costituito, per lei, un’ancora di salvezza. Evidentemente ad un prezzo non insignificante per questa figlia.
La presa di coscienza dei genitori
In poche parole, è divenuto semplice, in questo gruppo, andare nuovamente con la mente alla presa in considerazione, da parte dei genitori, di sé stessi e di come dei loro comportamenti, sicuramente nati a fin di bene, avessero potuto avere degli effetti indesiderati nei confronti dei figli. Questi ultimi, infatti, sono in grado di assumere su di sé traumi e/ lutti non elaborati, subiti in prima persona dai genitori, propri o che sono arrivati a loro dalle generazioni precedenti e di viverli preoccupandosi per essi come se fossero propri. Il che può contribuire a distrarli dal difficile compito di crescere.
A mio parere, raggiungere tale risultato, favorisce il chiarimento dell’evoluzione dei rapporti tra persone appartenenti a generazioni diverse, permette a tutti di farsi una ragione di quello che è accaduto e di imparare a collaborare per costruire un futuro migliore per tutti.