Commento all’articolo di Chiara Valerio “Così i social ci rubano la memoria”, apparso su La Repubblica il 14/03/2023
Questo articolo può reintrodurci nel tema, pressoché infinito, della memoria.
La coscienza, intesa come consapevolezza del nostro mondo interno col suo fluire di esperienze – il “flusso di coscienza” che ha ispirato Joyce – è in qualche modo già memoria, perché l’istantanea esperienza del momento è diretto seguito della precedente nonché premessa immediata della successiva. S. Agostino scriveva: “la memoria è lo spirito, cioè sono io stesso”.
Ma memoria in senso stretto, lo sappiamo bene, è conservare traccia durevole dell’esperienza, metterla in magazzino (per rifarci alla metafora suggerita dallo stesso Agostino). Egli – sfiorando il concetto di inconscio – coglie il mistero per cui un ricordo apparentemente scomparso può riemergere spontaneamente, o se sollecitato, da questo “magazzino” che è fondamento del nostro Sé.
E’ nostra costante esigenza la proustiana “recherche du temps perdu”, e da sempre puntiamo a sostenerla con mille ausili: la condivisione del ricordo in una sorta di memoria collettiva, magari strutturata in mitologie anche evocate da cantastorie, la scrittura nelle sue mille applicazioni, i monumenti (da “monere”, ricordare) le tracce elettroniche… Ci impegniamo perfino nella importante e problematica impresa di scrivere la Storia.
Come ben sappiamo, questi ricordi possono venir alterati maliziosamente per logiche di potere oppure andar perduti per deterioramento o distruzione del supporto, classico o elettronico, inclusi quelli legati ai social di cui ci parla Chiara Valerio. Una certa dose di precarietà non è monopolio di essi.