E’ l’anno di Dante. Ci ha parlato di tutto, e molto incisivamente anche della speranza: le dedica l’intero canto XXV del Paradiso, quasi giunto al culmine del suo viaggio.
E’ un discorso che ci riguarda da vicino: particolarmente come operatori psichiatrici, perché per noi e per i pazienti perdita di speranza e cronicizzazione sono la stessa cosa; ma anche come persone e cittadini, perché è la speranza che ci aiuta a tollerare le difficoltà e deprivazioni, specialmente quelle gravi e pervasive come l’attuale COVID: “La spene, che laggiù di sé innamora, in te e in altrui di ciò conforte…”
Certo, non sono più i tempi di Dante, non potremmo sottoscrivere tali e quali i suoi versi: “Spene – diss’io – è uno attendere certo della gloria futura”. Non è più epoca di certezze, e la parola “speranza” non si coniuga più con “certezza”: ironicamente può capitare che parliamo di “pia speranza” come sinonimo di illusione.
Questa potremmo considerarla una perdita o una maturazione, o entrambe, poiché le due cose possono – dovrebbero – stare insieme. Quel che è certo è che non si sono realizzate speranze, come quella comunista, non già di raggiungere il Paradiso ma di crearlo qui in terra, per tutti e per sempre.
E’ nostro compito elaborare costantemente queste contraddizioni, mantenere accesa quella speranza che ci fa vivi e utili come operatori e ancor prima come persone. Del resto, tornando a Dante, anch’egli non a caso parla di “spene” proprio alla conclusione di un lungo, tormentato percorso di elaborazione e autorealizzazione. Non fa le cose facili. E allora forse la sua prospettiva non è poi così diversa dalla nostra attuale: può ancora insegnarci molto.
‘speranza che ci fa vivi e utili come operatori e ancor prima come persone’ grazie Lino di questa frase…tanto difficile da tener unita tra operare e vivere, da continuare ad elaborare nei limiti nostri e non nostri, che ci capitano addosso, che ci danno , che ci sono stati dati.