Emilia porterà al convegno REMS del 3/4 ottobre la propria testimonianza di vita e di esperienza con le restrizioni.
Ci parlerà di dignità e riscatto sociale, di continuità e di presa in carico emotiva e materiale.
Questo scritto vogliamo pubblicarlo ora, come un’apertura verso i temi che verranno affrontati in sede di convegno.
Che sia di buon auspicio cara Emilia, che possiamo essere costruttivi come lo è tata la tua esperienza.
A presto.
Monica Carnovale
È sicuramente difficile raccontare del carcere e delle sue risorse. Il carcere è luogo di perdizione, assomiglia all’inferno, e le risorse che mette a disposizione dei detenuti sono poche e ben nascoste. Io ho avuto la fortuna e la tenacia per assicurarmi uno spazio di raccoglimento e ricerca. Posso dire: sono viva.
A Ponte X ho utilizzato ogni attività: la scuola, la biblioteca, il gruppo terapeutico e gli incontri individuali con lo psicologo. Avrei potuto fare scelte diverse: restare in cella a bere caffè, mettermi sotto l’ombrello di persone “importanti”, imbottirmi di farmaci, invece no; nella mia testa prendeva forma un progetto: tornare dai miei figli e fare la madre. Non è andato a buon fine, ma questo è successo molto più tardi.
Trovare in carcere cose utili e buone è veramente difficile. Come entri ti dimentichi subito che il carcere dovrebbe essere riabilitativo. È solo punitivo per la maggior parte delle detenute che non hanno strumenti e si lasciano andare all’inedia. Io fui più fortunata e forse più intelligente.
Il primo “esterno” a venirmi in soccorso fu il mio psicologo, quello che vedo ancora adesso, dopo più di vent’anni. A lui chiesi la continuità, e devo dire che ha rispettato il patto!
Avevo tanta paura di non riuscire perché ero molto sola e non potevo contare su nessuno, per questa ragione mi costruii una rete che mi trattenesse dal perdermi. Il suicidio era spesso nei miei pensieri. Ogni giorno avevo un impegno con il Ser.T. o il Comune e il sabato e la domenica rimanevo in casa a occuparmene.
Cominciai a lavorare. Pulizie alle Lavatrici di Prà, poi in Acquario, sempre cooperative sociali. L’ultimo gradino dell’occupazione, ma era pur sempre meglio di niente. Devo aggiungere che non mi dispiaceva lavorare, mi sentivo in qualche modo realizzata. Portare i soldi a casa, mansione da capofamiglia. Di lavori ne cambiai diversi perché desideravo qualificarmi quindi feci stage, borse lavoro, fui in uffici, ma non funzionò. Probabilmente portavo addosso il peso del mio passato in modo troppo evidente, mi declassavo da sola. Comunque continuai a lavorare sino a una borsa lavoro presso la biblioteca Gallino che durò diversi anni. Lì trovai le colleghe migliori, prive di pregiudizi e che mi insegnarono il mestiere. È un’esperienza che ricordo con molta gioia.
Il salario era troppo basso e vorrei sottoporre a questa assemblea questo problema; non si può vivere con salari di due o trecento euro al mese. Un salario così basso è un deterrente.
Anche un’altra parte di me si andava formando quella che cominciava a vedermi attiva come paziente psichiatrica.
Non ho ancora detto che io stavo male fin da bambina, che ho ricordi precisi della mia malattia alla quale non so dare un nome, ma che era prepotente.
Grazie alla mia assistente sociale del Comune partecipai a un incontro sui gruppi di auto aiuto e l’argomento mi parve molto interessante. Andai allora ad un convegno e lì conobbi molte persone che avevano tanto da dire; io soprattutto ascoltavo. Conobbi Roberta Antonello e alcuni volontari della Prato e fui così colpita dal loro modo di fare auto aiuto che chiesi a Roberta se potevo partecipare ai loro gruppi. Iniziò così il mio rapporto con la Prato. Non fu facile all’inizio perché il rapporto con i miei figli si stava sgretolando, mentre quello con mia madre non funzionava da anni, e io che avevo investito tutto sulla storia con i miei figli, ero proprio malridotta. Ancora una volta il suicidio mi appariva come una soluzione. Forse Roberta se ne accorse e, dopo un inizio barcollante, trovai il mio posto in associazione. Cominciai a fare la volontaria seriamente ed ero contenta delle mansioni che svolgevo.
Qui viene la parte difficile: raccontare un miliardo di cose belle, importanti, arricchenti e almeno un altro miliardo di fatiche, di sconfitte, di dolori.
Per esempio: la Prato mi anticipò una grassa cifra, in accordo con i Servizi Sociali di Serra Riccò, che ho restituito non appena entrata in possesso di una cospicua somma di denaro. Ancora, creando un legame stretto e costruttivo, negli anni, sempre soccorrevole, sempre attento e valorizzante. Così, ad esempio, sono entrata in contatto con la scrittura condivisa, perché, se è vero che ho sempre scritto, non avevo mai avuto il coraggio di espormi leggendo ad altri i miei pezzi.
Alla Prato, negli anni, abbiamo fatto molte cose: teatro, video, gruppi di scrittura e di lettura, abbiamo pubblicato tre libri, fatto musica e soprattutto i gruppi di a.a. che ci hanno plasmato e aperto la mente. Solidarietà, moti di affetto, amicizie, sono queste le cose che ci tengono in vita e che, grazie alla Prato, coltiviamo.
Circa una dozzina di anni fa, la Prato mi offrì di trasferirmi da Serra Riccò, dove vivevo ormai sola in uno spazio molto angusto, a Voltri. Dissi di sì e si mise immediatamente in moto il meccanismo e trovammo casa, elettrodomestici e mobilia in tempi brevi. Di mio avevo solo dei libri, al resto, affitto compreso, pensò la Prato. Due forme di aiuto quindi: il sostegno e il rispetto, da una parte e l’aiuto economico dall’altra. Mi sentivo importante e benvoluta. Finalmente a mio agio.
Non appena abbiamo potuto abbiamo fatto la richiesta per la casa popolare e finalmente circa un mese fa mi è stata assegnata. Splendida prospettiva, obbiettivo raggiunto. Non vedo l’ora di sentirmi più autonoma di quanto non mi senta ora. È ancora grazie alla Prato se le pratiche sono state seguite (io so che da sola non sarei riuscita)
La mia gratitudine nei confronti dell’associazione è un sentimento profondo e radicato.
Dieci, cento, mille Prato!




Grazie a tutti gli operatori .