Vaso di Pandora

Da Tencent a Baidu, così la Cina comanda l’intelligenza artificiale

Commento all’articolo apparso su “La Repubblica” il 3 dicembre 2018

Si parla della concorrenza in questo campo fra le due potenze mondiali. Non sono economista né informatico, e un mio commento nel merito dell’articolo avrebbe lo stesso valore di qualunque persona non informata né competente.

Provo invece a dire qualcosa su valore, limiti e rischi dello sviluppo dell’’intelligenza artificiale, sia in campo specialistico psichiatrico sia in un ambito più generale.

Naturalmente, nell’articolo si intende una certa forma di intelligenza, quella che “processa” in forme variamente complesse e sofisticate una serie di dati “duri” (o presunti tali) verificabili e confrontabili. Essa si è già dimostrata  capace di competere anche vittoriosamente con l’uomo, per esempio in un campo che le è propizio come gli scacchi: ma non a caso l’intuizione di Poe aveva invitato a non sopravvalutare la “laboriosa futilità degli scacchi”. Non si parla, invece, di intelligenza emotiva, quella che Nietzsche prendendo spunto da Spinoza definiva “un certo rapporto degli impulsi fra loro”, una capacità di comprenderli e integrarli.

L’AI con il suo sviluppo ci ripropone con tanta maggior forza il ruolo della matematica, poiché  si trova molto a proprio agio con i numeri.  Si pone qui un problema epistemologico non piccolo. Per Wittgenstein la matematica è un gioco che non scopre nulla del reale ma “costruisce” un reale specifico, distinto dalla realtà empirica: ma non possiamo certo negare che, malgrado ciò e un po’ misteriosamente, i suoi costrutti e corrispondenze divengono, grazie alla loro affidabilità, criterio di verità: Galileo diceva che la natura ci parla con i numeri. Credo non resti che tenerci questa aporia per quel che è.

Possiamo chiederci:

Che cosa la macchina “intelligente” ancora non può fare, oggi e nel prossimo futuro? Cosa differenzia la sua intelligenza da quella umana? E  quale il suo possibile aiuto nel lavoro di noi psichiatri?

Si è parlato delle sue possibilità nella previsione delle condotte suicidarie e autolesionistiche, nonché di quelle criminose; nella valutazione di indicazioni e nella gestione della terapia farmacologica; nella diagnosi anche precoce di disturbi affettivi, di psicosi attiva, di disturbo della attenzione. E’ certo possibile che possa costituire un utile aiuto alla valutazione clinica. Molto maggiori le perplessità che desta la proposta di psicoterapie automatizzate, senza presenza fisica del terapeuta.

Ciò introduce al problema più generale di quali siano i limiti della AI, attuali e prossimi futuri.

Lasciamo da parte gli aspetti non propriamente cognitivi, come le emozioni, l’amore, l’odio, le valutazioni etiche. Al limite della sfera cognitiva è il cogliere il senso di una situazione o condizione o rapporto: momento fortemente intriso di aspetti emozionali. Per Frege, citato da Morlotti, per “senso” intendiamo una categoria del comprendere di carattere pre-concettuale, intuitivo, relativo a un ambito, un punto di vista, un contesto esistenziale … una direzione verso la quale l’intenzionalità umana, che in questo contesto sorge ed agisce, viene ad applicarsi.

Insolubile, e forse futile porselo, il quesito se la macchina abbia coscienza, ciò che peraltro sembra improbabile. Dopo tutto, la sola coscienza di cui abbiamo piena consapevolezza è la nostra individuale: quella degli altri, la supponiamo per analogia e per una serie di segni indiretti.

A un inesperto di informatica sembrerebbe al di là delle capacità della macchina una serie di possibilità:

–  la capacità di cogliere la “verità” di finzioni come quelle letterarie e teatrali, che nell’invenzione possono cogliere una verità  profonda; vicine a questa operazione è l’ermeneutica,  atto del comprendere il senso nascosto di una proposizione di solito criptica;

–  la costruzione e impiego di metafore, intese non come  artificio retorico ma come essenziale componente del pensiero: come ha detto Michel Deguy, citato da Borutti, il dire è sempre “autrement dit”, è un cogliere qualcosa d’altro. La metafora impera, certo, nella poesia, che pure è una forma di conoscenza: Garcia Lorca così si rivolge all’ amante che con la forza delle sua presenza lo fa sentire un niente: “i tuoi occhi erano due muri – e il mio corpo rumore d’erba”. La parola è tanto più ricca di pensiero quanto più è metaforica: la metafora dice qualcosa che non può essere detto altrimenti.

– la creatività scientifica.   Fra poesia e scienza non c’è una contrapposizione poi così radicale: anche nella ricerca scientifica si tratta di vedere qualcosa come qualcosa d’altro, di vedere forma e significato attraverso analogie (Wittgenstein).   I progressi scientifici spesso nascono da una intuizione, da una visione diversa di un dato di esperienza, quando non da un cambio di paradigma secondo Kuhn (Struttura delle rivoluzioni scientifiche). Per  Benfenati: “il decifrare una struttura ignota partendo da una sua piccola parte, e cercare di comprendere un progetto scritto in un linguaggio ignoto, necessita di intuizione, di una sorta di stele di Rosetta che ci faccia guardare le cose sotto una diversa prospettiva o sotto una diversa dimensione”.  E Jacob, Nobel per la Medicina nel 1965: “la scienza mira a giustificare ciò che si osserva con le proprietà di ciò che si immagina…”.

Con tutto il rispetto per Heidegger, non potrei condividere una sua posizione, probabilmente provocatoria: “la scienza non pensa … non può pensare … perchè ne va delle garanzie del suo modo di procedere”. Essa si rifà, dopo secoli, al criterio di Francis Bacon, uno dei fondatori del moderno metodo scientifico: la verità scientifica come legata alla ripetibilità e quindi  tanto più affidabile quanto più è cercata e verificata da persone non geniali ma  pazienti e regolari nell’impegno. Posizione, credo, allora necessaria per delimitare il campo del verificabile in contrapposizione al mito, alla leggenda, alla superstizione. Forse oggi vanno quanto meno  diversamente considerati, sotto questo aspetto, il momento della scoperta da quello della verifica.  Parrebbe difficilmente rientrare nelle corde della AI la creatività, la comparsa improvvisa di qualcosa di nuovo.

Pare a me che l’intelligenza artificiale abbia un utile ruolo ancillare; ma può accadere che  il servo si sostituisca  di fatto al signore che ha bisogno di lui, come nell’apologo di Hegel: e che la visione del servo diventi predominante. È il caso di strumenti come le scale di valutazione o il DSM, che rischiano di divenire la “verità” della psichiatria; e che non a caso si prestano molto bene alle modalità di elaborazione “digitali”.

Il timore di una prevaricazione è stato avanzato fra gli altri da Hawking ed espresso da Kubrick in “Odissea nello spazio” con l’impazzimento del calcolatore di bordo  HAL (allusivo acronimo derivato da IBM, sostituendo ad ogni lettera quella antecedente). A me pare che  il rischio reale non consista in una improbabile sopraffazione fisica, quanto all’imporsi di una forma di pensiero di tipo esclusivamente digitale. Anni fa Janzarik, citato da Arnaldo Ballerini, parlava di una crisi della psicopatologia come “area della ricerca che rischia di scivolare in una terra scientifica di nessuno perché le sue scoperte maggiori non possono essere espresse in diagrammi  o nel linguaggio del computer”. Credo che, malgrado tutto, sia ancora vero.

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