Con il volume “Thomas Szasz” Roberto Testa mi riporta – sollecitandomi qualche nostalgia -all’epoca ruggente che ho vissuto, il mitico ’68. Questo, fra i suoi lasciti non tutti positivi, ha consentito e forse ci ha imposto un profondo rimaneggiamento della prassi psichiatrica e della nostra visione della sofferenza mentale. Szazs è stato allora uno degli Autori di riferimento: invitante l’occasione di rileggerlo dopo tanti anni.
L’opera cui mi rifaccio è “I manipolatori della pazzia”, pubblicato proprio a quell’epoca, nel 1970. Offriva all’esame critico, a fianco di ciò che anche oggi definiamo disturbo mentale, pure un alone di cose allora vietate e squalificate anche come psicopatologiche: dalla masturbazione alla omosessualità, fino ad ogni posizione e comportamento che si discostasse dagli schemi socialmente consentiti… Tempi passati, anche – va riconosciuto – per opera di tanti fra i quali si può annoverare anche Szasz.
Il consentito e il vietato
Quando si parla di consentito e di vietato, diviene centrale un discorso sulla libertà. Sono alquanto sorpreso da una frase della presentazione: “I libertari sono una sparuta minoranza fra gli psichiatri, quasi tutti orientati a sinistra”; come se significasse che chi è di sinistra rifiuta la libertà! Qui si tratta di intendersi. C’è sicuramente una richiesta di libertà che potremmo definire di destra: il liberismo dell’imprenditore che reclama libertà di impresa, non condizionata da eccessivi vincoli imposti dallo Stato, in nome di una produttività che migliorerebbe il benessere di tutti.
E c’è una libertà di sinistra; libertà dal bisogno, libertà di accedere a esperienze e contesti di vita che vengono spesso impediti da carenza di risorse. Ricordo un fatterello riportato da Trotskij nella sua Storia della rivoluzione russa: il governo borghese di Kerenskij, nella sua breve vita fra la Rivoluzione di Febbraio e quella di Ottobre, aveva aperto a tutti la libertà di assistere a spettacoli teatrali prima riservati ai nobili: i proletari avevano inteso ciò come libertà di entrare gratis. Si era spiegato loro che quelle libertà andava intesa in senso teoretico: ma, fa notare Trotskij “le masse in rivolta non hanno mai mostrato inclinazione al platonismo né al kantismo”.
Chi è Roberto Testa, autore del volume “Thomas Szasz”
Szasz non si può considerare propriamente esponente di una antipsichiatria: ha lavorato da psichiatra, e ammette la legittimità anche etica di una psichiatria contrattuale, che prevede un accordo consensuale fra cliente pagante e terapeuta. Considera questo un imprenditore, con un certo rispetto per tale figura. Contesta radicalmente, invece, la psichiatria istituzionale col suo ampio uso di interventi coattivi, motivati da una diagnosi di follia atta a coprire, a suo avviso, forme di lecito radicale dissenso; mascherando ciò con la pretesa di conoscere il vero interesse del presunto folle molto meglio di quanto lo conosce lui stesso. Ciò, equiparando la sofferenza mentale a una malattia somatica, e ignorando le tante ambiguità e contraddizioni di tale operazione. Ne consegue una sorta di sospensione dell’habeas corpus nei riguardi del sofferente mentale.
Thomas Szasz
Szasz paragona tutto ciò, spietatamente, alla antica caccia alle streghe, a suo tempo codificata sul piano pratico e teorico dal “Malleus maleficarum”, opera pubblicata nel 1486. La data è importante perché mostra come l’acme di tale persecuzione non abbia avuto luogo nell’oscurantista Medio Evo ma agli inizi dell’illuminata Età moderna: forse l’intolleranza nei confronti dell’irrazionale e non dimostrabile preannunciava la prossima nascita del pensiero scientifico e scientistico.
L’inquisitore era una sorta di epidemiologo, interessato a che la stregoneria non si diffondesse; un diagnosta, incaricato si stabilire chi era strega e chi no; e un terapeuta, che cercava di recuperare il soggetto alla vera fede. Questa sorta di affinità con la figura medica confermerebbe dunque che quello psichiatrico sarebbe un nuovo e non diverso abuso poiché ancor prima della persecuzione attiva – Szasz considera tale l’intervento psichiatrico istituzionale – streghe e pazienti psichici designati condividono il comune destino di capri espiatori depositari di ogni negatività: nemici interni, “malfattori” identificati e autenticati, che i “protettori della società” sono chiamati a fronteggiare, anche a difesa dell’etica dominante, in un procedimento di espulsione del male (riporto testualmente espressioni dell’Autore).
Non mancano raffronti anche con gli eretici, i lebbrosi, gli appestati, gli ebrei, i mori cacciati dalla Spagna dopo la reconquista; e con i coloured del suo paese, che però sono riusciti a venire in qualche modo a patti con l’oppressore bianco. Ne consegue un giudizio di incurabilità che ha poco a che fare con una diagnosi medica; anche se la medicina e in particolare la psichiatria viene indicata come correa in questa operazione che di sanitario avrebbe ben poco.
Il caso di Ezra Pound
Si cita il caso di Ezra Pound, esemplare per l’intreccio fra politica, arte, salute mentale. Personaggio di grande spessore, è stato processato negli USA per la sua proclamata adesione al fascismo considerata un tradimento della patria in guerra. Lo si è ritenuto malato di mente: non so quanto in considerazione dell’evidenza di aspetti bipolari e quanto per opportunità politica.
Come esempio di “cura” Szasz si rifà a 1984 di Orwell: il protagonista, clandestino oppositore del regime totalitario, viene scoperto, definito folle e sottoposto a un trattamento che può ricordare quelli cognitivo-comportamentali, con buon “successo terapeutico”: rientra nei ranghi.
Thomas Szasz e il libertalismo
La recensione considera, non a torto, Thomas Szasz un campione del libertarismo: dottrina non nuova. Già nella prima metà del secolo XIX Max Stirner scriveva: “Nelle mani dello Stato la forza si chiama diritto; nelle mani dell’individuo si chiama delitto”. Purtroppo, nessuno ha trovato il modo di rinunziare totalmente alla forza: si è riusciti solo a incanalarla – fra l’altro precariamente e parzialmente – in percorsi predisposti, prevedibili, controllabili: va già bene quando si riesce a non uscirne.
Dunque, forse all’epoca sopravvalutata ma tuttavia evidente la dimensione politica del discorso. L’invito a uscire da una prassi psichiatrica non curativa ma repressiva trovava fondamento anche in una riflessione storica: esemplare l’opera del Foucault di “Storia della follia”, che fra l’altro mostrava come la psichiatria istituzionale avesse preso forma, prima pratica e poi teorica, all’interno di strutture destinate a rispondere alle più svariate forme di bisogni e di devianze. A questo proposito, va ricordato come Szasz si opponga al concetto stesso di devianza, che presuppone un “deviare” da una direzione ritenuta arbitrariamente quella “giusta”.
Importante dunque il contributo della sociologia. Basaglia si è fortemente ispirato al Goffman di “Asylums”, che mostrava come le varie istituzioni totali – carceri, caserme, manicomi – condividessero molte importanti caratteristiche in qualche modo patogene. Va detto che certe analogie non erano sfuggite, un secolo prima, a Mirabeau quando scriveva che il carcere era una fabbrica di crimini e l’asilo pre-manicomiale una fabbrica di follia.
Ambivalente l’atteggiamento nei confronti della psicanalisi: si diffidava del suo ridurre il discorso a un’ottica individualistica e di una prassi privatistica rivolta a una classe privilegiata e abbiente. Successivamente la psicanalisi, specie gruppale, si è rivelata strumento utile nel rinnovamento della nostra cultura terapeutica.
Il movimento del ’68
Molte cose sono cambiate dai tempi di Thomas Szasz, lo sappiamo. Il cambiamento intervenuto ha una valenza non puramente tecnico – scientifica anche perché non sarebbe stato possibile senza l’inserimento in quel più ampio movimento che ha preso il nome di ‘68, e che ha in parte realizzato la pretesa di ampliare gli spazi di libertà per tutti. Quel movimento ha costretto noi operatori psichiatrici ad autocritica e riesame del nostro ruolo. I più anziani di noi hanno vissuto quei momenti in modi molto diversificati: chi ha partecipato attivamente alla spinta al cambiamento, chi si è rifiutato di uscire da una triste routine, ritenendo il manicomio qualcosa di naturale e immodificabile: schermo, credo, a vissuti di personale inadeguatezza a un ruolo terapeutico.
Cosa è davvero cambiato?
Qualcosa certamente, sul piano terapeutico e di quello, collegato, del rispetto di una libertà personale. Quanto alla terapia, abbiamo certo superato il modello puramente medico ma riteniamo unilaterale la visione di Szasz poiché quello che chiamiamo disturbo mentale è di per sé una condizione di sofferenza che richiede aiuto. Centrale la relazione, ispirata sul piano teorico, più o meno consapevolmente, dagli approcci psicodinamico e fenomenologico nonché da quello psicosociale. Utilissimi i farmaci, che danno quel che possono dare: da molti anni non si registrano nuovi apporti importanti nella psicofarmacologia. I progressi nelle neuroscienze, pur notevoli, al momento non paiono offrire nuovi strumenti di intervento
Quanto all’importante problema della libertà, certo abbiamo fatto progressi ispirati anche da Autori come Szasz. Almeno qui in Italia (e non solo) l’eventuale obbligo di trattamento psichiatrico è poco frequente e di regola molto breve a meno che riguardi pazienti autori di reato. Tuttavia, al di là di ciò la libertà reale del paziente non è incondizionata. L’adesione a trattamenti protratti, anche residenziali, può essere di fatto condizionata dall’inesistenza di alternative percorribili e da pressioni sociali: non proprio una libera scelta. C’è della strada da fare…