Roberto Esposito parte col ricordare come il Covid ci abbia reso consapevoli della nostra vulnerabilità; condizione inevitabilmente umana, sottolineata già dai tragici greci e ripresa con grande intensità nel novecento, soprattutto – ricorda Esposito – da donne, come Simone Weil e altre. Ciò, non per caso poiché il “sesso debole” è stato tale per millenni, credo anche per la sua minor forza muscolare: forse la sostituzione, abbastanza recente, di questa con l’energia di macchine mosse da combustibili ha molto contribuito alla crescente ricerca di una parità in larga parte conseguita.
L’esperienza di vulnerabilità consente due tipi di risposta, in qualche modo opposti anche se variamente integrantisi: la ricerca dell’immunità personale e quella di un rafforzamento dei legami comunitari. “Immune” e “comune” condividono la radice “munus” (obbligo, servizio, corvée), indicandone due diverse risposte: ricerca di una salvezza – esenzione individuale, o contributo alla salvezza comune tramite la condivisione del “munus”. Certo, i due atteggiamenti possono convivere (come nel banale uso della mascherina); oppure tutto l’opposto, come nell’erigere confini e barriere.
Ciò ha precisi riferimenti nel nostro lavoro. Nella psichiatria classica, oggettivante, lo studioso si poneva nella posizione di un osservatore “neutrale”, “immune” (fino a prova contraria) dal male che colpiva il paziente. Nella nostra attuale ottica, e in particolare in quella specifica esperienza che è la comunità terapeutica, si rinunzia a tale “immunità” o almeno la si sfuma, realizzando così l’appartenenza a un comune mondo esperienziale, pur nel rispetto delle differenze individuali e della condizione di particolare sofferenza di alcuni. Questa può riflettere il particolare “disagio della civiltà” delineato da Zygmunt Bauman: “nella nostra epoca il mondo intorno a noi è tagliuzzato in frammenti scarsamente coordinati, mentre le nostre vite individuali sono frammentate in una successione di episodi mal collegati fra di loro”.
Si apprezzano queste parole se si ripensa per contrapposizione allo stile di vita del mondo contadino, in cui abitazione e posto di lavoro tendevano a coincidere spazialmente, in cui il futuro avrebbe prevedibilmente riprodotto il passato, in cui l’azione sulla natura non era così incisiva e distruttiva come oggi, in cui la famiglia tendeva ad allargarsi progressivamente anziché frammentarsi in unità minori. Non si tratta di voler tornare tutti a quel mondo; ma di non dimenticare che il nostro progresso ha pure un costo, maggiore per i soggetti più fragili; e che forse val la pena di recuperare qualcosa di quel passato, o almeno provarci.
Infatti, è interessante ricordare che le espressioni “frammenti, frammentare” che Bauman applica al nostro mondo sociale sono state ampiamente impiegate per descrivere e quasi definire certi mondi psicotici individuali, e addirittura per dare loro il nome: schizofrenia”. Ma il problema del rapporto fra sofferenza individuale e disagio sociale è troppo grosso per entrarci qui e ora.