Commento all’articolo di M. Mari apparso su La Repubblica, il 12 luglio 2018
Come guarire il nostro cuore di tenebra
Si parla di Lord Jim, romanzo di Conrad. Questi è uno degli importanti romanzieri di fine ottocento e primo novecento.
Può essere lecitamente inserito in una generazione di grandi come Joyce e Proust che, sviluppando un filone iniziato da un Dostoevskji e un Flaubert, rivolgono la loro attenzione al mondo interno e alle sue dinamiche, in una temperie propria dell’epoca che dà nascita alla psicanalisi.
Quest’opera è, come altre opere di Conrad anche un apologo sul colonialismo e il razzismo, ma fondamentalmente sulla vergogna, tema che come psichiatri ci interessa.
Il protagonista, Jim, giovane ufficiale di coperta, ha sempre coltivato l’attesa di una occasione di distinguersi con un gesto eroico; ma quando l’occasione arriva la fallisce miseramente.
La nave su cui opera come secondo ufficiale è coinvolta in un incidente e in una tempesta: pare stia per affondare col suo carico di esseri umani: pellegrini di nazionalità varia e mal definita, ma comunque “non bianchi”, definiti solo globalmente, come “sciame” o “mandria”.
Jim, coinvolto nel panico generale e quasi non rendendosi conto di ciò che fa, abbandona la nave che peraltro non affonda e viene rimorchiata in porto da altro bastimento. Jim, svergognato e processato, viene degradato.
Inseguito incessantemente dal suo passato ovunque vada, infine si nasconde a Patusan, remoto staterello semiselvaggio retto da un Rajah, dove è quasi il solo bianco e nessuno ha sentito parlare di lui: finalmente!
Vi troverà infine la morte, ma non senza essersi in qualche modo redento affermando la propria superiorità culturale e divenendo capo della comunità.
Come nota l’Autore nel 1917 ( a guerra mondiale in corso), in tutta la vicenda domina una “acuta, dolorosa consapevolezza dell’onore perduto”.
Il concetto di onore ha una dimensione storica e una metastorica. Storicamente, l’onore di cui parla Conrad fa riferimento a un insieme di valori ben definito che non è più il nostro, sintetizzato nell’espressione “fardello dell’uomo bianco”. Questi aveva il diritto – dovere di dominare e guidare popoli inferiori, anche “per il loro bene”, non venendo meno all’obbligo di esprimersi e agire al massimo livello. Innanzi tutto, non poteva e non doveva aver paura: e mai perdere il controllo della situazione.
E’ ovvio che questo insieme di precetti è superato, ma è ben vivo il tema generale: ognuno di noi è tenuto a far riferimento a valori che hanno a che fare con il freudiano Ideale dell’Io. Questo, anche se oggi tali valori non sono uguali per tutti, e pare non esista più un paradigma dominante.
Se si vien meno a quest’obbligo, subentrano necessariamente vissuti di colpa e vergogna, concetti come ben sappiamo non identici tanto che appare oggi prevalente, soprattutto nell’adolescenza, il problema della vergogna. Questa è meno tollerabile poiché mentre la colpa riguarda qualcosa che ho fatto, la vergogna coinvolge il “come sono fatto” (anche se questa distinzione ha i suo limiti, poiché difficilmente incontriamo uno dei vissuti in assenza dell’altro).
La differenza è icasticamente mostrata dall’Autore: “ciò che ci impedisce di diventare criminali è a nostra forza interiore … ma nessuno di noi è abbastanza protetto contro la propria debolezza”.
La vergogna implica la presenza di un pubblico: come ha fatto notare Cargnello, chi si vergogna è oggetto della attenzione altrui. Essa porta con sé la voglia di nascondersi, così ben mostrata in “Lord Jim”: vi si parla di “vergogna che fa arrossire, di sguardi intenti che ghiacciano l’anima”.
Il rossore, componente quasi obbligata, indica (come osserva fra gli altri Eugenio Borgna) la globalità psico – somatica di questa esperienza, e l’impossibilità di nasconderla più di tanto. Borgna si sofferma in particolare sulla vergogna nell’adolescenza, che nasce nel confronto talora acuto e doloroso con il senso della vita: la ricerca di senso è premessa al mio personale progetto, a quel che voglio essere, alla mia adeguatezza a ciò.
Da non dimenticare che Lord Jim è poco più che un ragazzo, che deve fare ancora le sue prove. Si tratta di una problematica narcisistica eppure profondamente connessa alla relazionalità: la costruzione dell’immagine di sé ha molto a che fare con le attese e le risposte dell’altro. Tornando a Jim, il mondo in cui egli si muove attende da lui affidabilità, fedeltà alla parola, possibilmente eroismo.
Conrad esprime il suo dissenso a questa catafratta posizione tramite un personaggio che, pur nella sua breve apparizione, può esser considerato deuteragonista: il capitano Brierly, impeccabile comandante di una nave che è un modello per tutti. Il suo messaggio: “nessuno di voi ha il senso della dignità: non pensate abbastanza a ciò che dovreste essere”. Ma questa immagine di perfezione accanitamente perseguita mostra tragicamente la sua fragilità e sostanziale fallacia, addirittura sfociando nel suicidio. Il Capitano “affida la sua realtà e la sua finzione alla custodia del mare”: penetrante e crudele ironia. Il sentirsi esente da vergogna non è una garanzia, tutt’altro.
Al contrario, Tomkins nel 1963 sosteneva che la vergogna può avere funzione adattiva contribuendo alla formazione di un sentimento di unicità e individualità, e al contempo invitando a fare i conti con gli altri. Non è lecito dimenticare i classici contributi di Kohut, che considera la vergogna come fortemente correlata al problema della costruzione del Sé. Definisce l’immediata risposta di vergogna, includente il rossore, come “spiegamento di investimenti narcisistici disorganizzati”.
Nella sua lezione il paziente narcisista tende a reagire al ricordo di un faux pas con eccessiva vergogna e rifiuto di sé stesso. Torna continuamente al momento penoso, nel vano tentativo di annullarlo.
Sembra quasi che si stia parlando di Lord Jim. Kohut ritiene pure che sia la necessità di arginare forme primitive di libido esibizionistico – narcisistica a portare a una autoconsapevolezza penosa, alla vergogna e all’imbarazzo. E’ azzardato pensare che un meccanismo di questo tipo porti Jim all’acting dell’abbandono della nave, attuato in maniera preconscia così da realizzare una esperienza di vergogna in qualche modo cercata? Kohut dedica infine qualche riflessione al processo di guarigione: la grandiosità infantile diviene una più realistica e positiva sensazione di un diritto al successo: un “sentire da conquistatore”.
Forse Jim, nel divenire capo della minuscola comunità indigena dove si è nascosto, ha tentato un percorso del genere, peraltro fallendo: il suo temporaneo successo si conclude con una morte pressochè voluta. Su un piano più generale, si può ipotizzare che fattori personali di questo tipo siano entrati in gioco nei protagonisti delle conquiste imperialiste, da Cortez a Cecil Rhodes a Lord Kitchener; le cui gesta Lord Jim riproduce su scala minore, cercando come loro un confronto avvantaggiato con persone portate dalle vicende storiche a esser considerate, e a sentirsi, inferiori.
Credo che la psicologia e la riflessione storica, anche elaborata dalla fantasia dello scrittore, possano e debbano trovare momenti di confronto e integrazione.