Commento all’articolo Mangiare il giusto con gusto apparso su La Repubblica il 25 gennaio 2021
Cibarsi: necessità, fonte di soddisfazione, spesso gioiosa. Tuttavia, ha delle ombre più o meno nascoste.
Non poche persone hanno un rapporto difficile con il cibo: dal lattante con il primitivo rapporto con il seno non privo di elementi conflittuali, dai bambini più cresciuti che possono farne un terreno di scontro con l’adulto –“se non mangi la tua bistecca non avrai altro” – arriviamo alle mille idiosincrasie alimentari, magari mascherate da certe cosiddette intolleranze senza chiara base biologica, e fino alle forme nettamente patologiche: anoressia, sitofobia psicotica, bulimia. Le difficoltà alimentari possono essere una parte non piccola delle difficoltà di gestione terapeutica del sofferente mentale grave.
Questo non può stupire, poiché l’alimentarsi, necessità vitale e di regola piacevole, ha comunque un sottofondo drammatico dimenticato. Un dato di fatto è che la vita animale, priva di clorofilla, può sostentarsi soltanto con la predazione: col distruggere un altro essere vivente per appropriarsi delle sue proteine e dell’energia chimica che contiene. Ogni animale è costituzionalmente aggressivo, e non può non esserlo.
Stiamo divenendo più restii ad accettare questa realtà: crescono i vegetariani, i vegani; addirittura si affaccia qualche “respiriano” che va ben oltre pretendendo, letteralmente e follemente, di “vivere di aria”! Ma “c’è un metodo in questa follia”: è correlata alla crescente consapevolezza che riconosce alle piante una particolare sensibilità e perfino una qualche forma di intelligenza. Consapevolezza presente, in forma meno estrema, nei “fruttariani”: reputano non colpevole solo mangiare frutta, che è comunque destinata ad esserlo in una operazione necessaria ad alcune forme di riproduzione vegetale.
D’altronde, nulla di nuovo sotto il sole: per fermarci agli ambiti culturali a noi più vicini, c’è da tanto tempo il digiuno rituale degli ebrei, quello degli islamici… Quanto a noi cristiani, abbiamo il prolungato digiuno di Gesù nel deserto e la parvenza di digiuno del Venerdì.
Che in realtà il cibarsi non sia pacifico lo conferma l’esigenza di mascherare il cibo, di cuocerlo o comunque di manipolarlo, di renderlo diverso dall’essere vivente da cui proviene. Simone de Beauvoir intendeva sfidare questa esigenza, raccontando come lei e Sartre pranzassero spesso in modo sommario e disadorno: volevano “ridurre il cibarsi alla sua verità”. Ma non credo ci riuscissero del tutto. Credo che il ritualizzare il cibo favorisca una elaborazione depressiva del conflitto di base: il distruggere l’oggetto del desiderio. Ma può accadere che questa elaborazione ceda il passo alla negazione, in quel festino maniacale che è la bistecca al sangue. Occuparci riflessivamente dell’alimentazione dei nostri pazienti è dunque una esigenza importante non solo per una esigenza biologica nutrizionale, ma anche perché curare il rapporto non sempre facile col cibo fa parte a pieno titolo della terapia: significa occuparsi di una attività che, per quanto quotidiana e fondamentale, non è priva di elementi conflittuali magari dimenticati ma attivi. Elaborarli può aprire la porta a un nutrirsi gioioso: a mangiare il giusto con gusto.
…a proposito del cibo:
“Ma appena la sorsata mescolata alle briciole del pasticcino toccò il mio palato , trasalii, attento al fenomeno straordinario che si svolgeva in me, un delizioso piacere mi aveva invaso isolato, senza nozione di causa”.
M. Proust
Questo è il cibo secondo la mia personale esperienza , e così come spesso a questo quesito mi rispondono i pazienti e in senso più ampio ogni umano a cui ho chiesto.
Un’ esperienza intensa legata ai sensi la cui memoria piacevole viene rievocata come un evento poetico.
E.R.