In un gruppo che si è tenuto presso il Lipsim, oggi pomeriggio, come tutti i giovedì alle 18, una signora di 56 anni, Francesca, ha iniziato la sua partecipazione parlando del fatto che ieri si era sentita male, le sembrava di essere un disastro e che il marito era stato molto paziente e gentile con lei, aiutandola a calmarsi.
Dopodiché ha cominciato a parlare di aver avuto una famiglia di origine problematica, di non essere riuscita sul lavoro, di essersi ritrovata sola, a casa, rispetto a suo marito e a sua figlia viceversa molto vicini, finché la figlia non è andata via di casa per lavoro.
Adesso si sente ulteriormente sola, incompresa, non accolta nella sua sofferenza né dalla madre, né dalle sue sorelle, né dal marito, se non nelle situazioni di emergenza.
La madre di una ragazza difficile, con una storia complicata, riferisce che la figlia le ha confidato che le piacerebbe tornare ad essere piccola come il fratellastro di pochi mesi.
Il padre di un ragazzo che non viene mai e che è solito allontanarsi da casa per poi rientrarvi, il giorno dopo o dopo qualche giorno al massimo, dopo essere stato in giro per l’Italia o per l’Europa, a quel punto racconta che il figlio problematico ha comprato e cucinato per lui, la moglie e il fratello maggiore sposato e padre di due figli, nell’occasione del 2 giugno. A quel punto il padre commenta che forse anche suo figlio vorrebbe tornare indietro, quando vivevano tutti insieme.
Un altro padre di un ragazzo molto grave, in analisi personale ma che non frequenta il gruppo, chiede a Francesca se le piace fare qualcosa, perché è importante che ci sia qualcosa che piace, altrimenti la vita perde di significato, come sembra che avvenga a lei.
Francesca dice di sentire di stare bene soltanto quando sente di far star bene le persone che le vogliono bene, intorno a lei.
Propongo a Francesca di pensare al fatto che lei era venuta al gruppo tutta rivolta verso sé stessa, pensando a sé come malata. Dopo un po’, però, con l’aiuto del gruppo, si era accorta che lei si dedica, abitualmente, soltanto a cercare di corrispondere alle aspettative degli altri, trascurando totalmente, anzi non sapendo nemmeno in che cosa consista occuparsi di qualcosa che le piace, tanto che nemmeno lo sa.
Il gruppo si conclude sulla considerazione, da parte del primo padre, che quando il figlio più grande si è sposato, lui ha pianto in maniera eccessiva e che forse il secondo figlio, quello che scappa e ritorna, ha bisogno di allontanarsi ma poi di tornare, come per rassicurare i genitori che non li lascia né ora né mai.
Nell’ultima riunione plenaria del gruppo di operatori delle CCTT Redancia che si riuniscono per commentare il lavoro di condivisione effettuato dal sottoscritto presso una loro CT, in questo caso Mondo Red, una collega, la dott.ssa Rebella, di Casa Pero, ha ipotizzato che i genitori che partecipano al Gruppo di Psicoanalisi Multifamiliare (GPMF) si identifichino con i pazienti e si sentano parte in causa altrettanto quanto i propri figli.
Questa riflessione nasceva dal commento entusiasta proposto dagli operatori di Mondo Red a proposito di genitori che non solo avevano partecipato generosamente ma anche, finalmente, parlando di sé, in particolare delle proprie difficoltà a esercitare un controllo meno intenso sui pazienti, ora che sono contenti di vedere che in quella CT i figli o i fratelli stanno sempre meglio, e che ai genitori piacerebbe riuscire a “lasciarli andare”.
Le considerazione di Rebella sono state influenzate dal buon clima che tutti condividevamo, legato all’ottimo lavoro portato avanti dagli operatori di Mondo Red che, evidentemente, i genitori e i pazienti avevano saputo riconoscere. Ma non soltanto, io penso.
Io ritengo che dietro a quella considerazione c’era la sensazione di avere a che fare con la patologia grave per come essa è veramente.
La patologia grave non è costituita soltanto dal paziente ma dal paziente e dai suoi genitori o, meglio, dal paziente e dal genitore insieme a cui dà luogo al legame di “interdipendenza patologica e patogena”.
Fina a ieri avevo pensato che la CT si occupa dei pazienti e che gli operatori convocano i genitori o, comunque, i familiari, per capire quello che si può fare oggi e ripensare a come sono andate le cose in passato e viceversa. Per riuscire a portare fuori della CT i buoni risultati raggiunti sia con il lavoro dei pazienti in CT, tra loro e con gli operatori, sia con il lavoro tra i pazienti e i genitori, in modo che, una volta fuori, non si manifestino di nuovo le difficoltà del passato nelle loro relazioni o, almeno, in maniera meno cruenta.
Dopo oggi, penso che nei GPMF noi vediamo all’opera la follia nella sua interezza, che la follia è fatta di e da più persone, come appare evidente nei gruppi e come si riscontra con chiarezza nelle opere di chi si è occupato sistematicamente di pazienti gravi, sia lavorando con i nuclei familiari singolarmente sia con i gruppi formati da tante famiglie, compresi i pazienti.
Non possiamo più tenere separati questi mondi:
- da un lato le famiglie psicotiche, lavorando con le quali appare evidente che il problema riguarda la relazione di uno o di entrambi genitori con i nonni del paziente; problema costituito da un lutto o da un trauma non elaborato all’interno della relazione nonni-genitori, che questi ultimi hanno scisso, reso dissociato e “trasferito” inconsciamente ad uno degli esponenti della generazione successiva: il figlio più in sintonia con il genitore che si era “difeso” amputandosi una parte significativa di sé, che, in seguito, diviene “il malato”, il “portaparola”, il “capro-espiatorio”;
- Dall’altro le Comunità Terapeutiche, che si prendono cura dei pazienti, li fanno vivere in un nuovo “ambiente”, in cui le persone malate iniziano a vivere in un modo molto simile a quello in cui vivono le persone sane, anche se poi sono esposte, una volta fuori, a ritrovarsi nelle situazioni originarie, patologiche e patogene, a meno che non si lavori sistematicamente sulle relazioni tra i figli pazienti e i genitori, sia che i figli tornino a casa, sia che non ci tornino.
Penso di aver capito finalmente perché mi sono interessato da una vita alle cure che può offrire una CT: si tratta di un luogo di vita in cui le persone possono sperimentare rapporti umani non connotati essenzialmente dalla prevaricazione dell’uno sull’altro, dovuto alla patologia presente in quell’insieme di tre generazioni di cui fanno parte, ma dal rispetto e dalla considerazione reciproca tra le persone con cui si convive.
A patto che poi, però, si trovi la forza di far incontrare sistematicamente i figli e i genitori perché insieme riorganizzino il “campo patologico” da cui provengono, lo trasformino in qualcosa che rassomiglia di più a come si vive in CT, adesso che a come si viveva a casa, prima.
Io penso che la follia nel suo insieme si veda nel GPMF; che abitualmente in CT se ne veda la parte costituita dal paziente, che non è tutta la follia, che per capire veramente come è, è necessario prenderla in considerazione tutta insieme.
Cò non toglie che sia importante lavorare con i pazienti in CT. Rimane fondamentale che operatori appassionati, non solo come quelli di Mondo Red ma di tutte le CCTT Redancia, seguitino a svolgere il loro lavoro sotto la guida di Giovanni Giusto e Milena Meistro.
Però, adesso, a due anni dall’inizio di questa straordinaria esperienza di lavoro, che mi porta a condividere sistematicamente quello che avviene nei GPMF che si svolgono nelle varie CCTT, io penso che la follia la vediamo nei gruppi multifamiliari e che da questa considerazione, che la follia sia costituita sia dai figli che dai genitori, oltre che dai nonni, come accennato in precedenza, non possiamo prescindere se vogliamo conseguire risultati duraturi del duro lavoro a cui ci dedichiamo.
Un’ultima considerazione: probabilmente avrò accumulato esperienza e mi piace fare questo lavoro, ma l’entusiasmo degli operatori, quando mi capita di fare i GPMF con loro, dipende soprattutto dal fatto che gli operatori riconoscono come valide le ipotesi esplicative di Jorge Garcia Badaracco e trovano riscontro di esse parlando con genitori e pazienti, fino a sentirle come proprie.
Il lavoro clinico e la riflessione offerta da Andrea Narracci offrono ulteriore supporto all’indirizzo sistemico. Ci ricorda, fra gli altri, Bateson col suo complesso lavoro sulle distorsioni comunicative imperanti nella famiglia dello schizofrenico. Naturalmente, anche la psicanalisi ha messo la famiglia nel fuoco della propria attenzione, pur se questa si è rivolta di massima non alla famiglia attuale, di carne e sangue, ma alla famiglia storica rivissuta come fantasma. E’ suggestivo ricordare come (se ricordo bene) sia Lacan che il sistemico Bowen abbiano detto che ci vogliono tre generazioni per fare uno psicotico.