Vaso di Pandora

Cerchiamo l’infelicità (e nemmeno lo sappiamo)

“Digli che ho avuto una vita felice” affermava il filosofo Wittgenstein, tra i massimi pensatori del Novecento. Una vita costellata di solitudine, depressione e angoscia, non di certo felice come la immagineremmo pensando a questo sua dichiarazione…  

Affermeremmo che le persone ricercano il piacere e cercano di aggirare il dolore ma non è sempre così. Jason Mcnabb, Guinnes World Record per il maggior numero di peperoncini ingeriti in due minuti, calza a pennello per spiegare la neurobiologia del dolore. Provando dolore si attivano parte delle aree cerebrali che si innescano anche durante uno stimolo piacevole. Dolore e piacere sono la stessa cosa?  

La reazione del cervello al dolore è il rilascio di una serie di neurotrasmettitori: 

  • Endorfine: inibiscono le trasmissioni del dolore e stimolano alcune aree del sistema limbico e della corteccia prefrontale, quali quelle relative al gusto della musica e alle relazioni amorose; 
  • Adrenalina: accelera il battito cardiaco, provocando eccitazione; 
  • Anandamide: provoca estremo relax, simile agli effetti dell’assunzione di cannabinoidi. 

Dolore e piacere, spesso, si attivano allo stesso modo, anzi, il dolore si configura come una sorta di “piacere proibito”. Ovviamente non si sta facendo un elogio all’autolesionismo. Paul Bloom, eminente psicologo canadese e professore distingue tra “chosen suffering” (ad esempio il dolore fisico post allenamento) e “unchosen suffering” (una qualsiasi notizia dolorosa inaspettata, una sofferenza non calcolata e alla quale possiamo solo scegliere se abituarci). Entrambe però, possono rafforzarci.  

Evolutivamente definiremmo l’infelicità una maestra: ci insegna a discernere cosa è dannoso per la nostra progressione. Gli esseri umani considerano maggiormente dannosi i sentimenti negativi che provocano e definiscono la stessa infelicità che tanto cerchiamo di allontanare ma è lo strumento fondamentale per rimanerne distanti. Secondo lo psicologo Alan Watts, se simulassimo un sogno lucido privo di scenari infelici, la nostra mente ricercherebbe una variante infelice per rendere maggiormente “reale e viva” tale scena. Le grandi opere d’arte sono proprio il frutto di continue esperienze negative nello stesso processo creativo, ricercando questo stesso stato mentale per portarla a termine. Cambiando il nostro paradigma da “come essere felici” “in che modo vogliamo essere infelici” possiamo scegliere tra diventar vittime di una gabbia mentale che porta ad una stasi (persino patologicamente depressiva) o sfruttare tale metacognizione per un miglioramento evolutivo? Spesso scegliamo la prima, partecipi di un sistema sociale confortevole e reticente verso l’infelicità, ridotta a tabù. 

Come nelle ore passate sui social network, in un “falso dualismo” di confronto (passivo), soddisfatti dalla dopamina di una notifica ma sofferenti verso l’apparente felicità altrui. Rifuggiamo il dolore percependolo come stridente nel benessere fittizio odierno. Ma l’infelicità è uno strumento necessario. Lo scriveva anche Peter Cameron d’altronde: 

“Un giorno tutto questo dolore ti sarà utile” 

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