Vaso di Pandora

Cattivi o malati?

Uno dei pochi bambini che ho conosciuto con diagnosi di “Deficit di attenzione e iperattività”, ADHD, risale ai tempi della specializzazione in Neuropsichiatria Infantile al Gaslini. Mi ricordo che mentre gli somministravo il testo di livello WISC-R lui continuava a giocare con una pallina, facendola rimbalzare contro il muro. Era chiaro che il bambino aveva un bisogno continuo di muoversi e non riusciva a stare seduto davanti a me.

Però ascoltava tutto quello che dicevo e rispondeva alle domande in maniera corretta e precisa, sempre continuando a far rimbalzare la pallina.

Non so se quel bambino avesse poi altri problemi e altre sofferenze profonde che giustificassero quel comportamento irrequieto e “iperattivo”, e la diagnosi di “deficit di attenzione con iperattività” sia stata solo una descrizione superficiale di qualcosa che ribolliva nel profondo, come la risposta a certe carenze affettive, mancanza di contenimento genitoriale, traumi infantili subiti. Davanti a una diagnosi di “deficit dell’attenzione e iperattività”, così come per il “disturbo oppositivo-provocatorio” e il “disturbo della condotta”, sono sempre più incline a pensare che possano, almeno con una certa frequenza, essere considerati la punta di un iceberg, la descrizione, cioè, di un insieme di sintomi che emergono alla superficie.

Breve storia dell’ADHD/DDAI

L’ADHD fu identificato e studiato per la prima volta agli inizi del 1900, quando dopo la Prima guerra mondiale i ricercatori notarono che i bambini che avevano contratto l’encefalite mostravano un’alta incidenza d’iperattività, impulsività e disturbi della condotta.

Negli anni quaranta alcuni militari che avevano subito danni in determinate aree cerebrali manifestavano iperattività, così come poteva provocare iperattività l’esposizione al piombo o altre tossine ambientali, l’intossicazione fetale da alcool e droghe. Fu quindi evidente ai ricercatori il nesso tra iperattività e danno cerebrale, tanto da arrivare alla convinzione che tutti i casi di iperattività fossero causati da danni cerebrali. Da qui il termine, ormai in disuso, di “disfunzione cerebrale minima”.

Studi più recenti hanno dimostrato che in numerosi casi l’ADHD ha una componente genetica. Questo ha portato alcuni ricercatori in particolare Barkley a ritenere che la popolazione stia sperimentando su larga scala mutazioni genetiche randomizzate. Tale ipotesi è tuttavia rifiutata dai genetisti per i quali nelle mutazioni randomizzate il gene viene selezionato per ottenere qualche vantaggio.

Negli anni novanta un numero sempre maggiore di esperti ha iniziato a considerare l’ADHD non tanto come un disturbo, quanto piuttosto una condizione naturale che oltre ad alcuni svantaggi in situazioni quotidiane conferisce al soggetto anche molte caratteristiche positive, quali la creatività, l’entusiasmo e le attitudini imprenditoriali. Questo probabilmente è da imputare anche all’aumento della diagnosi di ADHD, un tempo relegata solo a pochi bambini che presentavano danno o lesione cerebrale. Oggi i criteri diagnostici sono così estesi che un bambino che non presta attenzione a scuola o abbia difficoltà a finire i compiti può essere bersaglio di un’etichetta diagnostica. Da qui l’incremento delle diagnosi, che portano a diagnosticare 1-10% della popolazione (ma anche oltre), affetti da ADHD, ma solo una percentuale minima dei bambini affetti presentano problematiche talmente gravi da essere considerate un disturbo.

Dell’ADHD si può dire tutto e il suo contrario, dagli accesi sostenitori agli scettici, che ne negano l’esistenza. Le ricerche che cercano di trovare dati oggettivi nella patogenesi dell’ADHD attribuiscono un ruolo centrale al neurotrasmettitore dopamina, così come a una “disfunzione” di alcune aree cerebrali. Per quanto riguarda la dopamina, si sa che è coinvolta nella capacità di concentrazione, nelle emozioni positive e nel sentimento di felicità. Quasi tutte le sostanze che alterano l’umore agiscono sulla dopamina, inclusi alcool, sigarette, caffeina, eroina, cocaina così come i farmaci stimolanti prescritti per i soggetti con ADHD. L’attività della dopamina aumenta in risposta a una stimolazione mentale o fisica e questo spiega perché le persone con ADHD riescano a concentrarsi molto meglio dopo aver fatto esercizio fisico o in situazioni di emergenza.

Alcune persone possono nascere con una ridotta attività dopaminica. Un’ipotesi potrebbe essere che le persone nate con deficit di dopamina possano inconsapevolmente passare molto tempo cercando di incrementare i livelli di dopamina con sistemi positivi (tendendo a essere iperattivi, inventivi, competitivi) sia negativi (passatempi spericolati, assunzione di droghe). Un’altra ipotesi è che gli stili di vita influiscano sull’attività dopaminica. Ad esempio i bambini che passano molte ore davanti alla Tv o videogiochi raggiungono livelli di stimolazione cerebrale talmente elevati che il sistema nervoso potrebbe adattarsi fisicamente, trasformando l’alta stimolazione in una condizione necessaria.

Venendo al cervello dei pazienti affetti da ADHD, sebbene non esiste ancora una risposta certa e univoca del funzionamento mentale dei bambini affetti da ADHD, numerose ricerche affermano che possono essere coinvolti nella patogenesi del disturbo aree dei lobi frontali, che controllano l’attenzione sostenuta, la memoria a breve termine (soprattutto visuo-spaziale), la pianificazione e la correzione degli errori (funzioni esecutive). Nei bambini con ADHD si evidenzia una difficoltà a mantenere l’interesse nei confronti dei lavori scolastici per il tempo necessario al loro svolgimento.

Preferiscono solitamente, orientare l’attenzione verso attività gratificanti, evitando quelle più impegnative per avere subito un’approvazione, questo porta alla continua ricerca di stimoli, interessanti e divertenti. Tuttavia i bambini affetti riescono a mantenere l’attenzione e a portare a termine il compito se seguiti individualmente e se aiutati a focalizzare e mantener e l’attenzione. Questo suggerisce che potenzialmente non c’è l’incapacità di prestare attenzione in termini assoluti. Queste difficoltà meta cognitive spesso sono influenzate da fattori motivazionali (Sonuga-Barke et al, 1992, 1996), che in parte riescono a ridurre il deficit delle funzioni esecutive.

Accanto ai dati riportati dalle statistiche americane che rilevano un incremento delle diagnosi di ADHD, tanto che 1 bambino su 10, risulta affetto, è interessante annottare che lo stesso inventore dell’ADHD Leon Eisenbergerg pare abbia dichiarato ad un giornale tedesco, che tale patologia non esiste e che si tratti solo di un’invenzione (Der Spiegel, febbraio 2012). Secondo quanto dichiarato, ADHD sarebbe stata “inventata” per guadagnare. Un guadagno che deriva sia dai trattamenti richiesti per i bambini affetti sia dall’utilizzo di farmaci che bloccano ma non curano l’iperattività (come il famoso Ritalin). In alcuni bambini non vi è dubbio che sussistano iperattività, difficoltà di concentrazione, impulsività, ma quello che per i non sostenitori dell’ADHD è assurdo, è raggruppare i sintomi tutti insieme e trasformarli in una diagnosi.

E ancora peggio, trattarli con dei farmaci stimolanti, senza piuttosto affrontare la vera causa. Dunque l’iperattività, la mancanza di attenzione e il corollario di sintomi che caratterizzano l’ADHD, possono essere attribuiti a qualcosa di altro, e non necessariamente devono rientrare in una patologia definita per ogni bambino. Del resto ogni bambino ha una propria storia, una propria famiglia, ha vissuto determinate esperienze pre e post-natali che hanno contribuito alla costruzione del proprio modo di essere e di atteggiarsi nei riguardi del mondo.

L’iperattività, il bisogno irrefrenabile di muoversi, così come la scarsa concentrazione possono diventare spie di una sofferenza profonda, di un disagio o semplicemente di qualcosa che non va in un particolare momento della vita, qual è la latenza. La diagnosi di ADHD, infatti, coincide quasi sempre con l’inizio delle scuole elementari, sebbene bambini “iperattivi” possono già osservarsi verso i 2-3 anni. Ma è nella fase di latenza che il fenomeno assume proporzioni maggiori, proprio nella fase in cui il bambino fa accumulo di riserve emotive e le passioni vengono momentaneamente assopite. Può succedere che invece il bambino sia agitato e turbato da situazioni interne che vengono avvertite come pericolose, dalla paura di qualcosa di ingestibile e incontrollabile, da angosce che occorre tenere a bada.

Se le minacce interne o esterne vengono sentite estreme ed esagerate il bambino può mettere in atto una serie di comportamenti volti a proteggere il proprio sé, da un’estrema rigidità ossessiva a comportamenti dirompenti, iperattivi, distrutti.

Questo per dire che, a mio avviso, non è così semplice fare una diagnosi di ADHD, come invece sembrano dimostrare i dati che ci vengono forniti dalla statistica e che è sempre bene un’approfondita conoscenza del bambino e della sua storia prima di mettere un’etichetta diagnostica che può condizionare per lo meno una fase dello sviluppo del bambino se non tutta la vita.

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