Vaso di Pandora

Carcere e psichiatria

Qualche giorno fa un nostro paziente, Pietro, è uscito per fare una passeggiata. Era tutto concordato con i suoi operatori: aveva chiesto di andare in centro, avrebbe incontrato un amico e sarebbe rientrato per il gruppo della sera, momento di condivisione che chiude la giornata in comunità. E così ha fatto. Ma al suo rientro, del sangue gli colava dalla testa e dal braccio sinistro. C’era sangue dappertutto. “Mi hanno accoltellato, sulla banchina della metropolitana. Erano in tre e volevano la mia catenina, e la medaglietta d’oro. Era a forma di colomba”.

Una colomba.

Abbiamo chiamato l’ambulanza e con loro, visto l’accaduto, è arrivata anche la polizia. E dopo aver raccolto le informazioni che servivano per l’indagine, da uno dei due, è arrivata la domanda, rivolta a noi operatori, senza tenere conto di Pietro, come se lui non ci fosse più. Pietro, che a quel punto per far fronte psichicamente all’accaduto, ha iniziato i suoi rituali che prevedono la recitazione ininterrotta di preghiere.  

“Ma possono uscire da soli?”.

Di chi parli, scusa? Di chi parli? E sì, possono uscire da soli. Perché non dovrebbero?

Ho cercato di contenere la mia irritazione mettendomi a spiegare a chi avevo di fronte, 45 anni di psichiatria, dalla riforma del 1978. Ho poi spiegato cosa fosse una comunità terapeutica psichiatrica e cosa volesse dire riabilitare. Tenerlo lì almeno 40 minuti ad ascoltarmi è stato il mio lenitivo. Momentaneo, relativo perché per tutta quella giornata e per i giorni a seguire, mi sono domandata come fosse possibile, ancora, oggi quella domanda.

Quando mi è stato chiesto di commentare la notizia della morte del giovane Matteo Concetti, 23 anni, morto suicida, riporta l’articolo, impiccato con le lenzuola della branda nel bagno della sua cella di isolamento in un carcere marchigiano, dove era stato portato in seguito ad un’aggressione a colpi di sedia, ad un agente di polizia penitenziaria, ho pensato a Pietro e alla domanda di quel poliziotto.

E alla complessità che deve essere restituita, necessariamente, in questo scritto.   

Matteo, da quello che riporta la notizia, aveva una patologia psichiatrica, da anni soffriva di un disturbo bipolare. E ai genitori aveva annunciato il suo gesto. Era disperato, non ce la faceva. Aveva bisogno di cure.

Mi viene da fare quello che ho fatto con quel poliziotto. Informare. Che queste pagine, servano per far capire, anche a chi dovrebbe già saperlo, la situazione e la gestione del disagio psichiatrico in regime carcerario. Per questo mi sono rivolta a chi vive il carcere da vicino, a una persona che lavora negli Istituti penitenziari e che, per la sua professione, ha a che fare quotidianamente con questa difficile realtà a stretto contatto con le persone detenute. Affinché questa complessità sia raccontabile lascio a lei la parola perché ritengo sia necessario diffondere conoscenza, vera.

Per potersi esprimere liberamente, mi ha chiesto che non venisse rivelata la sua identità. 

I cancelli che si aprono e si chiudono. Le sbarre che proteggono le finestre. I blindi che sbattono. Il rumore delle chiavi. L’odore indecifrabile di un luogo chiuso che ricorda ambienti diversi, sensazioni di ospedale, di ufficio, di cantina e, se vogliamo, anche un po’ di casa.

Chi entra per la prima volta, volontario o visitatore, molto spesso riferisce di non avere fiato, di sentir mancare l’aria. E puntualmente quando esce si chiede come si possa restare lì dentro per così tanto tempo. 

Il carcere, un luogo unico nel suo genere, claustrofobico e contraddittorio, attraversato da incoerenze e incertezze, talvolta sicuro, fermo e deciso, è un luogo la cui complessità passa proprio attraverso questa confusione, insita nella sua natura: come può un luogo di restrizione della libertà e di separazione netta tra il dentro e il fuori, porsi come contesto rieducativo, improntato al reinserimento del condannato nel tessuto sociale? E com’è possibile tutto questo quando, oltretutto, insieme alla commissione di reati sussiste anche una malattia psichica? Una domanda che noi operatori del carcere ci poniamo quotidianamente e che ci consente di orientarci nelle nostre differenti professioni e destreggiarci nelle dinamiche detentive.    
Negli istituti penitenziari, infatti, le manifestazioni psicopatologiche sono particolarmente frequenti e possono riguardare la continuazione o l’esacerbazione di disturbi psichici preesistenti, oppure essere la conseguenza di eventi particolarmente traumatici dal punto di vista psicologico, come l’ingresso in carcere e tutte le attese che ne conseguono.               
Per questo, il primo filtro lo fa il Servizio Nuovi Giunti effettuato dagli psicologi del carcere attraverso un colloquio individuale con ogni detenuto al momento dell’ingresso in istituto, un colloquio che è volto a valutare lo stato del soggetto (con la rilevazione anche di eventuali dipendenze patologiche) soprattutto al fine di prevenire possibili gesti autolesivi. Altri esperti si occupano proprio della valutazione del rischio suicidario, più alto nel primo mese di detenzione, per il quale è previsto un monitoraggio e l’eventuale osservazione speciale in celle a rischio.

Per quanto riguarda l’assistenza sanitaria negli Istituti penitenziari, essa è erogata e gestita dal Servizio Sanitario Nazionale grazie al passaggio dalla medicina penitenziaria alla medicina di comunità avvenuto nel 1998 e implementato nel 2008. La presenza di psicopatologie in carcere è sempre stato e resta un tema delicato e controverso. Attualmente la percentuale è altissima e, in particolare nelle case circondariali che sono le carceri “di passaggio” da cui tutti transitano quando vengono arrestati e permangono fino alla pronuncia della sentenza definitiva, la condizione è spesso drammatica e sottopone gli operatori penitenziari alla gestione di situazioni molto delicate, che non dovrebbero essere relegate solo alla dimensione detentiva. È un tema fragile, perché non possiamo dimenticarci che abbiamo a che fare con persone che hanno compiuto reati, a seguito dei quali stanno scontando una pena detentiva. Allo stesso tempo, non può essere messa a margine la necessità di cura.  

La condizione delle persone ristrette con un disturbo mentale (già esistente o sviluppato durante la reclusione) spesso non risulta compatibile con la detenzione ma sono poche le strutture extramurarie in grado di rispondere a questo bisogno. Alcuni Istituti penitenziari somigliano a reparti ospedalieri, sovrastati dalla presenza di disagio psichico e malattie mentali.              
Quello che si incontra tra le pareti del carcere è molto spesso insonnia, inappetenza, reazioni ansiose, rabbiose, depressive e un’incapacità di gestire la propria emotività. Anche le tossicodipendenze sono molto presenti e di esse si occupano i SerD (Servizi per le Dipendenze) interni ed esterni al carcere. La legge 309 del 1990 disciplina la materia e consente ai detenuti, con particolari condizioni e limiti, di accedere a misure terapeutiche extramurarie, per poter proseguire l’esecuzione della pena sul territorio o in una comunità terapeutica. Negli Istituti che prevedono dei servizi specializzati come quelli citati, la presa in carico del paziente avviene anche in questo caso al suo ingresso, qualora dichiari un disturbo da uso di sostanze stupefacenti o alcool, o gioco d’azzardo. L’aggancio può avvenire anche in un secondo momento su auto-segnalazione o su segnalazione di altri operatori, ma avviene sempre con il consenso dell’interessato perché l’intervento terapeutico si realizza a partire dalla motivazione alla cura e non può mai essere imposto. L’intervento psicologico rappresenta un aspetto rilevante della presa in carico del paziente e si declina in diagnosi e trattamento.

Questa fotografia del binomio sanità-carcere vuole rimarcare di fatto una complessità esistente che non può essere rappresentata con parole di circostanza ma che riflette due mondi strettamente connessi e inevitabilmente in dialogo tra loro.

Alla fine, chi lavora in carcere è un po’ sognatore, trascorre le giornate muovendosi tra le dinamiche di queste contraddizioni e lo fa con un mandato ben preciso: consentire al “fuori” di avvicinarsi un po’ al “dentro” e guardare alle persone recluse come soggetti verso cui siano possibili azioni trasformatrici e generatrici di cambiamento, lavorando per superare quel rischio di medicalizzazione e di ghettizzazione del disagio psichico e sociale.

Un po’ come una danza, tra la dignità delle persone e l’efficacia degli interventi, che restituisce un mandato sociale alla sanità penitenziaria.

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Commenti su "Carcere e psichiatria"

  1. tempo fa feci un intervento in un webinar promosso dalla polizia di stato per spiegare i percorsi delle persone con disturbo psichiatrico, in particolare dei giovani adulti per spiegare loro che ci dovrebbe essere un’adeguata formazioni per le pattuglie di strada per procedere all’approccio con queste persone che sono sensibilissime, senza pelle, paurose, con mania persecutoria a volte e che facilmente si sentono minacciate quando vengono fermate per strade tante volte per accertamenti e chiedere i documenti. Certo che i ragazzi che sono in comunità possono uscire da soli visto che sono protetti dalle cure e dai programmi riabilitativi e proprio perchè non sono in carcere. Anche in carcere dovrebbero capire la storia della persona specialmente se il reato è dovuto ai sintomi della malattia psichiatrica e continuare il percorso terapeutico attraverso le cure dei farmaci come da storia clinica e attraverso attività riabilitative per permettere il recupero sociale dopo aver assolto la pena e ritrovata la libertà! Ma saranno mai liberi? I malati psichiatrici saranno mai liberi e persone degne di rispetto e considerazione? Liberi dallo stigma e dal pregiudizio?

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  2. Dal binomio “sorvegliare e punire” di cui parlava Michel Foucault abbiamo cercato di espungere la componente “punire”, concettualmente superata anche perchè riteniamo la nostra libertà di decidere e scegliere pesantemente condizionata da una serie di fattori neurobiologici, psicologici, sociali; ma di fatto quella carceraria è ancora una condizione afflittiva, al di là delle intenzioni.
    La contraddizione si avverte particolarmente in quella estesa fascia grigia in cui la trasgressione di rilievo penale si coniuga con una riconosciuta sofferenza mentale personale, capace di ridurre ulteriormente, in misura variabilissima, la capacità di valutare, scegliere e decidere. Chi si deve occupare di queste persone? La scelta può spesso dipendere, più che da realistiche esigenze di trattamento delle persona, da orientamenti personali di periti e giudici, ma ancor di più da insufficienze di adeguate offerte, residenziali o meno.
    I due problemi: da un lato il sovraffollamento delle carceri (motivo, certo non unico, delle criticità denunciate) e dall’altro la lista d’attesa delle REMS non ammettono, lo sappiamo, risposte a corto circuito come quella di aumento dei “posti letto”: fonte, è evidente, di rinnovata corsa alla istituzionalizzazione. Che fare? Non è questa la sede in cui entrare nei particolari: importante comunque mantenere e sviluppare il collegamento con l’esterno, nella complicata dialettica fra controllo, aiuto, autonomia.

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