Commento all’articolo apparso su La Repubblica il 17 luglio 2015
La tentazione è rispondere “ti sentiremo su questo un’altra volta”, cioè quando e se i computer avranno una vita emozionale piena di articolazioni e sfaccettature come la nostra, e un tipo di intelligenza capace di coglierle, pensarle, gestirle, elaborarle, in se stesso e nell’altro. Ma è sempre bene, credo, non ignorare approcci pur lontani dal nostro modo di pensare. La cosa mi ha incuriosito, e sono andato a guardarmi direttamente su Science l’articolo che professionalmente ci riguarda, e che fortunatamente è lontano da trionfalismi: Artificial intelligence; the sinthetic therapist, di John Bohannon.
La tecnica è ovviamente cognitivo-comportamentale; nel caso clinico di fobia sociale portato ad esempio, una serie di esercizi di progressiva esposizione alle situazioni temute, che ricordano da vicino la vecchia tecnica di desensibilizzazione specifica (Wolpe) è preceduta da un momento cognitivo di identificazione di pensieri e realtà disturbanti. La novità è che tutto ciò è gestito da un computer dotato di specifico programma, senza intervento umano successivo alla creazione del programma stesso.
La cosa richiede necessariamente una qualche forma di “intelligenza” nel computer, e pertanto si lega al problema dell’intelligenza artificiale. Lontano progenitore è ELIZA, un programma creato mezzo secolo fa.
Gli studiosi impegnati in questi progetti non ignorano il limite di questi approcci, la mancanza di quel tipo di rapporto fra paziente e”terapeuta” che include conscio o subconscio riconoscimento delle emozioni: cercano di superarlo includendo nelle informazioni una serie di dati espressivi, mimici o comunque non verbali.
E’ questa la meta – fare a meno del rapporto fra persone – cui vuol condurci un’impostazione perfino più reificante di quella dei vecchi manicomi dove questo rapporto – magari sadico – c’era? C’è da dire che anche i promotori di questo indirizzo non hanno, complessivamente, abbandonato la prudenza. E’ vero che alcuni fra loro, i più radicali, ritengono che in qualche caso la terapia con computer, ritenuto “più obbiettivo” (sic) possa vantaggiosamente sostituire quella con una persona umana; ma altri pensano che questa vada comunque necessariamente inserita nel circuito di cura, e che il computer sia più che altro uno strumento coadiuvante. Vedono il vantaggio sostanzialmente nella possibilità di mettere a disposizione interventi psicologici (evidentemente a corto raggio) a un maggior numero di persone.
Staremo a vedere…