Commento all’articolo apparso su La Repubblica
di Luca Gavazza e Maurizio Cristofanini
Come il foglio bianco dello scrittore. Bisogna cominciare. Finalmente ho il tempo libero per farlo. Strappo un po’ di tempo. Forzo.
Come Jekyll e Hyde. Mi devo trasformare da sedentario medico ad intraprendente ciclista. La vestizione è una parte importante. Un rito tecnico indispensabile per entrare nel nuovo setting. La fatica e lo sforzo fisico cominciano da lì.
Guardo fuori dalla finestra. Il tempo meteorologico orienta la scelta delle maglie e dei pantaloni traspiranti.
Controllo le gomme. Hanno bisogno di una gonfiata. Olio nel cambio. La bici è pesante.
Ora siamo fuori. Non sono solo. Siamo io e lei.
Allaccio gli scarpini e faccio scattare l’attacco dei pedali. Ecco ora siamo una cosa unica . Ibrida. Un insieme. Un tutt’uno . Può cominciare la seduta di mindfulness.
Gli occhi servono per vedere. Le orecchie per sentire. I polmoni per respirare. Il cuore per battere. Le gambe per pedalare. Nella strada tra Sciarborasca e il Deserto di Varazze c’è una salita detta “Il Calvario”. Si arriva lì già in debito di ossigeno e sembra un ostacolo insormontabile. Tachicardico mi chiedo il perchè della fatica. Il perchè non mi fermo. Lo scoprirò dopo quando sul falsopiano della Alpicella pedalo leggero. Sono arrivato in cima. Sul punto più alto. Sono premiato. Nella mente scorrono immagini. Aiutato dalle endorfine faccio riflessioni che altrimenti sarebbe difficile fare. La famiglia, gli amici, i ricordi, gli odori, impegni, problemi, quello che ho intorno. Ho la mente libera. Sono in armonia con la natura. Medito?
Comincia la discesa. La paura di cadere. Adrenalinica. Come potrebbe essere? Scivolato sull’asfalto? Errore nella traiettoria della curva? Come cadrò? A 10 anni contro un auto inseguito da un certo Mario aggressivo e di età più grande? Come quella volta a 18 anni trasportato da una amica sul motorino? Come quell’altra sulla terra del sentiero per il parco del Beigua? Escoriazioni, traumi, male. Ho il casco. Quanto basta per sentirmi protetto. L’esaurimento muscolare mi fa pensare al tè caldo e alla doccia. Due premi che mi spettano. Li merito.
Mi sento bene. Meglio di quando sono partito. Conta questo. Ora. Dormirò. Mi sveglierò dolorante. Mi sorprenderò di avere anche un corpo. Guarderò nella camera di mia figlia la mia mountain bike che vicino alla sua sul piedistallo è ridiventata e così resterà per alcuni giorni uno stendibiancheria.
Maurizio
Andare in bici può essere terapeutico? mah…dipende
Fare attività fisica con una certa continuità fa bene. Ribadisco, fare attività, non scrivere, leggere, guardare o parlare ma farla. Oggi più che mai siamo informati ma questo non risulta sufficiente a condizionare le nostre cattive abitudini.
Cerchiamo il parcheggio sotto casa a costo di girare per ore, prendiamo rigorosamente l’ascensore per evitare di fare le scale, sottoscriviamo abbonamenti annuali in palestra colpiti dallo sconto per poi scoprire che diviso per le volte che l’hai effettivamente frequentata ogni allenamento è costato 200 euro o forse dovrei dire che il costo per gestire i sensi di colpa è di 200 euro?
Siamo fondamentalmente pigri, e sazi, sì sazi perché un tempo per mangiare bisognava cacciare, quindi la fame sommata alle camminate infinite in cerca di selvaggina modellavano, rinforzavano e tonificavano il corpo senza aspettare la prova costume.
Oggi la stanchezza è più di natura mentale che fisica, ritmi incalzanti, impegni, problemi da risolvere tengono in scacco l’attenzione che sfinita cede e si concede a soluzioni non sempre salutari (aperitivino… sigarettina) per staccare (chimicamente) la spina in attesa di un secondo giro di giostra.
Veniamo ora alla bici. Un vero culto.
Vintage o super tecnologica, con i freni a bacchetta o a disco, in acciaio o in carbonio/titanio, tradizionale o con la pedalata assistita, in regalo con la televisione a colori o dai costi equivalenti ad una utilitaria, quindi…ad ognuno la sua. A questo punto, spolverati i completini dalle immancabili colorazioni fluo, inforchiamo la nostra bici e proviamo ad ascoltarci…
Il cuore asseconda lo sforzo e spera di non incontrare nessuno con un passo più veloce ma detto – fatto, sopraggiunge la classica fila indiana che sfreccia e lì la differenza la fa la testa… che si arrende all’istinto e comanda alle gambe di raggiungere la “preda”. L’area sottocorticale sembra farla da padrona, l’attenzione si concentra sui pochi centimetri che separano la nostra gomma anteriore da quella posteriore del nostro avversario. Velocità, media, e BPM fanno da contorno. Il cuore in gola, le gocce di sudore scendono dalla fronte e attraversano tutto il viso raggiungendo le labbra con il loro immancabile gusto salmastro. Una danza sensuale tra piacere e fatica asseconda tutta l’esperienza e ne definisce il carattere dominante. Di tutt’altra tonalità è la passeggiata ciclo-turistica. Lì, il piacere è la naturale risposta a cornici paesaggistiche e alla compagnia, ad un ritmo cadenzato che permette di godere attraverso organi di senso, stimoli e tempo a disposizione.
Per “Federica” tutto questo non è valido.
Nel suo caso associare alla bicicletta il sostantivo femminile “terapia” non è possibile. La bici le ha portato via il marito (trasformandolo in ex) si è insinuata in modo subdolo all’interno della copia sottraendo gradualmente e sistematicamente tempo, desiderio e piacere sostituendosi di fatto all’amata (il tradimento è compiuto).
Concludendo, andare in bici può essere un’esperienza piacevole ma ricordatevi di indossare sempre il casco, guidare con prudenza e non dimenticate di leggere attentamente le avvertenze e le modalità d’uso.