Vaso di Pandora

Benvenuto a Genova, Marco Cavallo!

di Paolo Peloso

Benvenuto perché rivederlo mi ha fatto piacere, e credo che quarant’anni dopo non possiamo ancora permetterci di lasciarlo riposare nella stalla, di consegnarlo alla storia, che abbiamo ancora bisogno di lui. Di lui con la sua capacità – ce lo ricordava ieri Peppe Dell’Acqua parlando ai suoi piedi come un fedele stalliere e un antico cantastorie – di aprire “varchi” capaci di essere soglie per l’incontro, di costringere muri e recinti ad adattarsi, loro, all’altezza di chi per di lì deve passare, chi vuole passarci senza dover essere, una volta di più, lui ad abbassare la testa.

Perciò, Marco Cavallo deve proseguire la sua corsa, carico certo di desideri, irrealizzati allora e parzialmente realizzati adesso, ma soprattutto carico di bisogni e di silenzi. E’ vero che non ci sono più i muri dei manicomi provinciali, ma ne sono sorti di nuovi, pensiamo ai muri dei CIE, alla rete tagliente di Melilla, alla rete della frontiera meridionale degli USA, di quella greco-turca, bulgaro-turca o al muro della Cisgiordania. Al muro d’acqua di Lampedusa e alle sue stragi. Muri tra chi condivide la dimensione antropologica dell’umanità e chi, oggi come allora, di quella stessa umanità è stato spogliato. E altri muri rimangono, i muri del carcere dove la sanità, quella che la 833 sancisce come diritto universalistico, sta entrando solo ora e con grande fatica; il carcere che le istituzioni normali della cura – i CSM, gli SPDC e non solo le sparute avanguardie dei DSM che si sono avventurate al suo interno e al suo interno rischiano di rimanere isolate – faticano ancora molto a riconoscere come un pezzo del proprio territorio, del quale deve essere “normale”, scontato prendersi cura. I muri degli OPG che vengono ancora, persino in questi ultimi mesi di agonia, chiamati a supplire le carenze delle istituzioni normali della cura quando le carceri sono lasciate sole ad affrontare i troppi problemi che contengono. I muri degli OPG tra i quali, e questo è semplice e bisogna farlo da subito, non dev’essere più possibile finire perché i muri delle diverse istituzioni della reclusione carceraria chiudono ma non soccorrono percorsi di sofferenza o malattia, o per perizie disinvolte e sbrigative, o per reati “bagatellari” quando si accompagnano a una condizione di malattia. Ma i muri degli OPG che evocano anche vicende dolorose, drammatiche, certamente complesse – le vicende che il cavallo ha scelto per pudore o per rispetto, verso le vittime e gli autori, di non nominare nel suo racconto, ma che ha scelto onestamente e coraggiosamente di evocare – vicende per la cui complessità non è possibile nessuna generalizzazione, semplificazione, ma per la cui narrazione – se è vero come mi ha insegnato Alfredo Verde che certi processi dovrebbero essere soprattutto faticosa ricerca di una narrabilità dell’indicibile – bisognerebbe saper individuare volta per volta, caso per caso, il delicato equilibrio tra responsabilità, malattia, espiazione, proscioglimento nella storia personale, unica e singolare, di un soggetto. Problema centrale nella vita di una collettività, sul quale il cavallo, nel suo problematico dialogare con il drago – niente di più distante dall’ideologia – ci aiuta a riflettere. E i muri dei grandi OPG destinati a trasformarsi – speriamo urgentemente – nei muri delle piccole REMS, luoghi nuovi nei quali e verso i quali bisognerà essere attenti da subito a costruire connessioni, a scongiurare il rischio di nuovi separazione e isolamento, e fenomeno del quale bisogna essere attenti a presidiare le dimensioni, perché non diventi la stura paradossale per nuovi processi di securizzazione della cura ben oltre i pochi casi, il tempo per lo più breve, in cui non si è capaci di farne a meno. Muri, recinti, gabbie che ci ricordano – ancora lì, al Palazzo ducale di Genova, come nel 1904 e nel 2004 – e il cavallo ha fatto molto bene a non dimenticarsene, come il superamento della contenzione fisica, attuata ancora talvolta con troppa disinvoltura e troppo poca trasparenza, consapevolezza, riflessione rimanga ancora, oggi, una delle sfide centrali e più appassionanti da affrontare lì, caso per caso, quando il problema si pone, ricordandoci di mettere sempre in primo piano il rispetto per la sacralità della persona e del corpo dell’altro. E al di là di tutti questi, che certo sono i problemi più duri ed evidenti, non possiamo neppure trascurare altri rischi, quelli di creare con le migliori intenzioni del mondo muri più sottili, gabbie talvolta solo emotive che possono diventare, e anche a questo dobbiamo essere attenti, anche le istituzioni buone della nostra buona psichiatria, quando i luoghi nei quali costruiamo buone relazioni, relazioni che curano, rischiano di trasformarsi in luoghi di approdo e non reiscono ad essere tappe di un percorso che ha per obiettivo il ritorno alla vita e alla normalità delle relazioni, quelle normali e di tutti. Un ritorno alla città che rimane – e questo sì quarant’anni dopo sembra davvero poco cambiato – così inospitale per chi è più fragile, sensibile, debole, nelle case, nei luoghi del lavoro e in quelli della vita comune. Per questi pensieri che mi hai evocato e che mi sento oggi, di getto, di condividere, sono contento di avere fatto parte di quel manipolo di amici che, sotto la pioggia, ha accolto nella nostra città il suo arrivo e quello del cantastorie che lo accompagnava, di avere potuto ascoltare – e per la gran parte condividere, per la restante lasciare che mi interrogassero – le loro parole, convinto che – sarebbe folle negarlo – certo in questi quarant’anni insieme a tutti noi hai fatto molta strada, ma che molta ancora ne abbiamo davanti, noi e lui, che ci accompagna e qualche volta imbizzarrendoti ci strattona, con l’ostinazione e l’amore, a volte magari anche un po’ irragionevole, per la libertà dei quali forse soltanto gli animali sono capaci. Cavallo di carta pesta che ci aiuta a non essere, nel nostro lavoro e non solo, persone di carta pesta.

Paolo Peloso, Genova 15 novembre 2013

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