Vaso di Pandora

“Assassini con la pistola e giornalisti con la telecamera”: quando il “cambiamento” nasconde lo stereotipo

Milioni di persone stanno guardando la tv comodamente seduti in casa. Va in onda il tg cui seguirà la consueta trasmissione di approfondimento di cronaca nera o di sciacallaggio più o meno giudiziari, dipende dai punti di vista. Clou della serata: un reportage appassionato dai luoghi in cui si è consumato l’ennesimo assassinio di una donna da parte del marito, ma questa volta nessun figlio/a è rimasto ucciso, per fortuna. Dunque, telecamere in differita dai luoghi del “fattaccio”, ospiti e testimoni in studio e intorno al luogo del delitto.

Debutta l’inviato speciale, che delinea velocemente le dinamiche dell’omicidio efferato e il luogo dove è avvenuto. Ed ecco apparire un vicino di casa “informato” sui fatti (sembra lì per caso, ma potrebbe essere stato precettato allo scopo) o un parente affranto della vittima o quello più imbarazzato dell’assassino (il parente di quest’ultimo viene normalmente stanato in casa sua e ripreso di solito sull’uscio dell’abitazione, sembra sorpreso e ha tutta l’aria di uno che è chiamato a giustificarsi per il congiunto omicida): alcuni raccontano del rapporto a volte piuttosto burrascoso, dei litigi periodici tra i coniugi «Nessuno ha mai pensato di intervenire?≫…≪Ma si sa come vanno queste cose in famiglia…poi si riappacificavano…».

Qualcuno narra episodi familia¬ri di una serenità quasi bucolica, ≪sembravano una famiglia normale, lui un po’ scontroso forse, ma niente di che; li vedevi la domenica uscire con i figli…chi l’avrebbe mai detto… Forse lei aveva un altro, ma lui era un farfallone≫. Tutti idealmente si uniscono alla vittima e ai suoi familiari, fa capolino qualche signora con la voce arrochita o che vibra in falsetto per l’emozione incontrollata che però all’ultimo momento rinuncia a parlare e qualche goccia di pianto comincia a zampillare; qualche raro uomo fa virilmente la voce grossa e vuole comunicare ufficialmente al mondo e con sommo sprezzo del pericolo che “questi qui sono tutti animali!…Ci vuole la pena di morte!…Se qualcuno si azzarda a toccare mia figlia lo scanno con le mie mani!…”.

L’immancabile esperto in studio ci spiega cosa scatta nella testa degli uomini in questi casi. Segue primo blocco pubblicitario dove altrettanto immancabilmente ti dicono che se vuoi essere qualcuno, se vuoi avere successo, se vuoi essere più virile o più femminile devi aver bisogno per forza di quell’auto ultimo modello o di quel tale profumo. E se non te lo puoi permettere niente paura: per la tua autostima virile o femminile puoi sempre sgranocchiare l’ultimo gusto di gelato della tale marca o farti una ceretta istantanea al bisogno, eventualmente (tranquilli, anche gli uomini adesso possono usufruire di rasoi speciali per depilarsi il corpo).

E poi manifesti che affettuosamente incitano al ricordo della vittima, striscioni con su scritto «E’ una di noi! È figlia nostra. Quella donna sono io! Siamo tutti donne! (in un tripudio di confusione di genere)»; e microfoni agguantati per urlare il «diritto di una donna a vive¬re sicura in casa propria o nella propria città o in qualunque posto si trovi e desideri e a qualunque ora». E ancora il commento di una ragazza così commovente per la semplicità con cui si esprime: – Ma cosa hanno in testa questi?! Non sono stati anche loro messi al mondo da una donna? Non hanno avuto anche loro una madre? -. E poi i funerali e gli applausi inevitabili scanditi da qualche coro da stadio pieno zeppo di santissimo sdegno.Termina l’inviato molto speciale: «La città si è pronunciata, protesta contro il mostro che vuole infangare la dignità di un quartiere e soffocare l’identità delle sue donne. Questo è il grido della gente e delle donne che non accettano più questa brutalità e dicono basta! A te la linea! Restate con noi! Segue secondo blocco pubblicitario.

Continuano poi criminologi, sociologi (più raramente), più spesso medici psichiatri con vocazione psicanalitica preferibilmente che azzardano un florilegio di ipotesi più o meno sensate, più o meno condivisibili che nulla hanno da invidiare a quelle proferite dalla gente comune affranta e arrabbiata e impaurita o semplicemente distratta (bisogna però ammettere che non è facile sottrarsi alla banalità cui ti espone il mezzo). A pensarci bene però l’invito in studio del consueto medico psichiatra ad illuminare le genti sulla situazione corrente è significativo, dopotutto. Il taglio che si vuol dare all’evento televisivo è abbastanza chiaro, secondo me. L’assunto di base, per così dire, è che bisogna medicalizzare e psichiatrizzare più in particolare la violenza sulle donne in quanto trattasi di fenomeno individuale che va curato da uno bravo possibilmente e punito con adeguata sanzione carceraria, verosimilmente. “Tutto giusto. Tutti d’accordo!”. È stato detto in tv! E il “mostro” è servito!

Uno dei tanti studiosi interpellati propone che questi uomini o alcuni di loro almeno (visto che ognuno è una storia a sé) stanno ammazzando simbolicamente la madre poco significativa quando si accaniscono sulle vittime; un altro si sbilancia e precisa che in verità essi stanno ammazzando le mogli perché non all’altezza delle proprie madri (le ipotesi non mi appaiano poi così bislacche, ma si fa tanto per parlare, si capisce). Ma che importa! Alla fine si può dire tutto e il contrario di tutto, tanto la mia opinione vale esattamente quanto la tua e qualsiasi cosa si pronunci in quelle sedi difficilmente servirà ad arginare la violenza che gli uomini perpetrano sulle donne. È ormai di pubblico dominio che certa tv non serve a trovare soluzioni, ma soddisfa la spettacolarizzazione del dolore al fine ultimo della commercializzazione di beni di consumo. Non c’è da stupirsi! È anche così che gira l’economia, si sa!
Una realtà immaginaria ci è stata propinata per anni dalla tv e dal cinema: in questi “parcheggi mediatici” un strana genìa di umani eternamente sdegnata e affranta si sbraccia perché i diritti delle donne siano tutelati, a patto però che non varchino la soglia di casa propria. E contemporaneamente questi difensori dei diritti a tutti i livelli si lasciano andare a battute da caserma o da taverna dimenticando che il confine tra la pornografia pura e il disprezzo sociale e culturale può essere davvero molto sottile. E se è vero che le parole sono importanti, se è vero che “a parlar male si pensa male e si agisce pure peggio” altrettanto vero è che “tra le barzellette e i campi di concentramento il passo può essere davvero breve”. “Perché è giusto che la donna ci ha i diritti a patto però che la mia ci abbia soltanto i doveri!”. Parafrasando Trilussa “Quello che è principio lo rispetto! Ma quella che è donna la scazzotto!”.
Bene! Questo “gender horror show” ha da finire finalmente e la «piazzata» te¬levisiva non ci regalerà più l’illusione del pregiudizio e dell’intolleranza sessuali venuti da chissà quale “”buco nero” o espressi da qualche invasato depresso o misogino frustrato, presto andrà in onda il “calo del sipario” quello oltre il quale sarebbe meglio non avventurarsi mai, perché temo vedremmo il “fantasma” di un popolo che dietro le chiacchiere e le facezie “innocenti”, di fatto si autoassolve anche quando i suoi «rappresentanti maschili» di tutte le età e condizioni battono a sangue mogli, fidanzate, compagne e figlie.

Ci convinceremo alla fine che il razzismo di genere non si ferma predicando che le donne sono uguali agli uomini. L’uguaglianza va bene, ma solo finché non c’è da dividersi un potere, un ruolo, un posto di lavoro, un seggio in parlamento o l’educazione e l’accudimento dei figli. “Lei faccia pure l’insegnate che ci è portata, si vede benissimo, che a costruire ponti e autostrade ci pensa lui che ci ha il cemento nel sangue e pure il calcestruzzo nel cervello”. Inutili le prediche e gli appelli rivolti a questi uomini assassini, stupratori, picchiatori che si sentono in guerra con tutti, donne comprese e si oppongono ad ogni “idea di interesse comune, di Collettività, di Stato e di Comunità”. Prima o poi bisognerà convincersi che il mondo rischia davvero di trasformarsi in un immensa discarica dove si attua la “raccolta differenziata di rifiuti umani”. Diamine! Che tristezza! Per il progresso e per la nazione, dunque! Smettiamola di votare per tutti coloro che parlano di “Azienda Italia”.

Alla fine capiremo che picchiatori e assassini e stupratori non sono il prodotto depravato di ideologie di estrema destra o sinistra o di isolate aberrazioni mentali o di sacche di povertà. Apprenderemo che essi con molta probabilità sono anche e soprattutto forse “i degni eredi di una società dove la “ragion di stato e dell’economia”, i canali della pubblicità e anche certi genitori “inculcano più o meno consapevolmente che l’unico parametro di realtà valido che testimonia dell’esistenza in vita di un individuo è la dottrina del successo e del potere”.

Capiremo che vale a poco ricordare che una società se cresce, cresce tutta insieme, o che le società più progredite di questo pianeta sono proprio quelle in cui uomini e donne di tutte le razze e colori godono di uguali diritti e opportunità.
Ci ricorderemo allora che “si formano partiti (di uomini e donne) a partire dall’intimità più raccolta quale può essere l’utero di una donna”. E ripenseremo che fondamentalmente le donne sono trattate ancora da più parti come mere incubatrici di organismi umani e che “il loro intimo più intimo, la loro coscienza, il loro utero è faccenda pubblica su cui hanno potere uomini di stato, di legge, di religione”.

E si vedrà che c’è qualcuno che si fa scudo delle leggi per scrollarsi dalle responsabilità: “puoi abortire, c’è la legge”, dice il marito, il compagno o il partner casuale quando lui non vuole il bambino.
Ma se la donna abortisce la responsabilità cade sempre su di lei e la “sua signoria sulla vita” si trasforma improvvisamente nel suo contrario, in una “signoria sulla morte”.

E rifletteremo sul fatto che “quando è lui a volere il bambino e lei non vuole tenerlo lui si scopre improvvisamente padre e padrone dell’embrione e si appella a quel 50% di patrimonio genetico trasmesso dal proprio seme per accampare diritti inalienabili sul corpo di lei e sul nascituro/a”. Dimenticando che finché sarà lei a portare a termine la gestazione è sempre lei a dover decidere in ultima istanza e nessuna legge morale o civile potrà mai tutelare certa pretesa, fino a quando almeno la tecnica non consentirà una gravidanza totalmente extracorporea e allora e soltanto allora parliamone, eventualmente, ma mostrerei uguale perplessità anche in quel caso, temo (ma questa è un’altra storia).

E osserveremo che ciò che è declinato al femminile nel linguaggio corrente sembra a volte perdere di autorevolezza e dignità: “il Segretario di Stato Condoleezza Rice, prego”, si diceva. Dire “Segretaria di Stato” pare brutto e poco rispettoso e fa pensare alla donnina occhialuta dall’aria bruttina che prende appunti per il dirigente di turno e torna in mente la “sora cecioni” che passa la telefonata al capo (e nonostante quello di segretaria sia una mansione dignitosissima che se ben svolta richiede spesso competenze di elevato livello).

E noteremo che persino il commentatore sportivo più scalcinato nel corso della telecronaca della più insulsa partita di calcio trasmessa in tv, per sottolineare la brutta prestazione della tale squadra tutta buttata in difesa dirà che “quei calciatori stanno giocando una partita femmina”. Cavilli! Sofismi! Pedanterie! Da “bar dell’intellettuale sportivo”! Forse!

E poi Golda Meir, M. Thatcher, Madeleine Albright ve le ricordate? Donne efficientissime. Nessuna di loro è stata portatrice di valori tradizionalmente considerati femminili. Anzi sono passate alla storia e applaudite perché sono state tutte versioni radicalizzate di valori tradizionalmente ritenuti maschili del tipo “falco predatore”. Insomma, se occupi certe posizioni di potere politico, economico, finanziario sembrerebbe che non si possa fare a meno di “averci le palle” dimenticando che per governare in modo sensato non servono le “palle” ma sarebbe meglio averci un cervello bello vispo con adeguato patrimonio di neuroni funzionanti, eventualmente.

Altro bislacco destino è toccato alla Cancelliera tedesca Angela Dorothea Merkel che ultimamente viene additata come troppo materna per certi suoi atteggiamenti nei confronti degli immigrati giudicati troppo morbidi tanto da meritarsi (ma per altri motivi) da qualche “politico-comico” nostrano l’appellativo di “culona”. E lo stesso comico da gran “cavaliere” quale’è “ravvisa” che la nostra parlamentare italianissima Rosy Bindi “è sempre più bella che intelligente”. Niente di grave! Sono soltanto “battute”!

Postilla: Qualche giorno fa in treno lungo la solita tratta che mi porta al lavoro incrocio due giovanissimi intorno ai 16-18 anni al massimo, direi, i classici due fidanzatini, insomma. Lui che si esibisce nel ruolo del maschio-bambino dominante aggredisce lei verbalmente e la spintona, vomitandole addosso una serie di improperi e di ingiurie, e le rinfaccia qualcosa o di aver detto qualcos’altro. Lei non accenna ad alcuna reazione, apparentemente dominata dalla veemenza dell’altro, forse impaurita o forse semplicemente rassegnata o disinteressata; il viso imbronciato appoggiato su un pugno e rivolto verso il finestrino. Visto che si erano presi la briga e di certo il gusto di inscenare l’alterco davanti a me, mi scappa di rivolgermi a lei e dico: “perché ti fai trattare in questo modo?”. Lei mi guarda, lui guarda lei come aspettando di vedere la sua reazione dinnanzi all’indebita intromissione dell’estraneo temerario (e soprattutto intimorito dalla eventuale reazione di lui). Poi i due si guardano e scoppiano a ridere (- l’ho fatta franca questa volta -, pensai). Poi lei continuando a fissarmi poggia la testa mellifluamente sulla spalla di lui e finiscono con una pomiciata estemporanea che aveva tutto il sapore della sfida. “Lieto di esservi stato utile”, ribatto (a ridaglie! Proprio non voglio capire) prima di alzarmi per cambiare scompartimento. Dico sul serio, ero davvero contento per aver offerto loro un “nemico” comune contro cui coalizzarsi e da utilizzare per riappacificarsi alla bisogna, finalmente. È possibile si trattasse soltanto di un isolato episodio e che al contrario fossero pieni zeppi di stima e rispetto reciproci e quotidiani, e forse stavano soltanto inscenando una “innocua violenza” tra partner come quella che sono abituati a vedere in tv dove tutti sono “Amici” compresi “Uomini e Donne”.

E tuttavia, mi dicevo che “bisogna prenderli da piccoli” se vogliamo provare a cambiare certi schemi umani di comportamento. La cosa più tragica, a parte il senso del ridicolo da cui mi sentivo sommerso per essermi improvvisato moderno Lancillotto (con l’aggravante di essere pure attempato), era che quella dinamica per loro in fondo doveva apparire del tutto naturale, era questa la dialettica “normale” con cui tendenzialmente si manifestava il loro legame amoroso, verosimilmente. E non riuscì a non pensare, anche se di sfuggita, al contributo inconsapevole che rischiano di offrire al dominio gli stessi che lo subiscono, a volte. E la difficoltà spesso di piantare paletti, di segnare confini. Un pensiero che cercai di fuggire immediatamente per il timore che simili riflessioni possano risolversi di fatto nello spostamento della responsabilità del male sulle vittime medesime.

Eppure a pensarci bene pare esistere una “forma paradossale di sottomissione che vede dominati e dominanti assoggettati al linguaggio subdolo di una “violenza dolce, invisibile per le stesse vittime” che “passa attraverso la comunicazione, la conoscenza e il sentimento”. Di fatto “allignano nei cuori” percezioni sfumate, pensieri velati, atteggiamenti altrettanto vaghi e sfuggenti che di fatto poi sfociano in “azioni” che vanno a rafforzare le ragioni del dominio paradossalmente anche a proprio discapito.

Si potrebbe dire che le nostre “azioni” sono afflitte da un bias cognitivo, un euristica della semplificazione che di fatto può risolversi nella perpetuazione di un pregiudizio, nella permanenza di uno stereotipo, vale a dire che guardiamo agli “atti, fatti, azioni, eventi, processi sociali come uniti semplicemente dal filo rosso della nozione di “cambiamento”. Partiamo dal presupposto che il “cambiamento” è descritto come una relazione fra due descrizioni di stati, in cui uno è convenzionalmente considerato come lo stato iniziale e l’altro come lo stato finale, per cui esiste un cambiamento fra i due stati se le loro descrizioni sono differenti. Da ciò ne può discendere che il “cambiamento” a livello sociale e culturale, ad esempio, rischia sempre di essere considerato totale (dunque positivo di per sé) se le descrizioni tra lo stato iniziale e quello finale di una situazione non hanno alcun elemento in comune e se ci limitiamo a questa descrizione. In sostanza rischiamo di cullarci sugli allori e di dormire saporosamente dopo le sacrosante conquiste. Un esempio banale: se consideriamo il voto alle donne, possiamo dire senza ombra di dubbio che di passi avanti ne sono stati fatti dai tempi delle suffragette; ciòé è innegabile, che lo stato iniziale (le donne non votano) e lo stato finale (le donne votano) non hanno alcun elemento in comune tanto che possiamo dire con orgoglio che c’è stato un “cambiamento” (totale). Ma al contempo la legittima soddisfazione morale se non ben interpretata e contestualizzata può rischiare di tacere pericolosamente che a tutt’oggi in Italia la rappresentanza delle donne in parlamento italiano quantomeno e nelle amministrazioni locali è decisamente scandalosa per la sua penuria. E abbiamo una donna come presidente della camera, è vero, ma non una presidente del consiglio.

Quindi, ai fini di una “buona azione” sociale dovremmo riflettere sul fatto che la relazione di “cambiamento” non è data una volta per tutte, ma è sempre posta, come posti sono lo stato iniziale e lo stato finale in base ai livelli di pertinenza, agli scopi e all’arco di tempo prescelti. Questo mutamento di ottica dovrebbe aiutarci in linea di principio a considerare le sequenze delle “azioni” sociali non più come successione di stati (stato iniziale-stato finale) ma come processi per cui “nella percezione e nella descrizione del processo il focus dell’attenzione è sulle proprietà del cambiamento in sé piuttosto che sulle differenze fra stato iniziale è stato finale. Se guardiamo all’azione sociale come ad una mera differenza di stati rischiamo che un’azione benemerita di per sé si trasformi in “un’azione di patologia sociale”. Allora, “un’azione sociale patologica” è quella che a lungo andare “esaurisce il suo senso nella realizzazione stessa”. Le “azioni” sociali e culturali si incancreniscono presentandosi cioè “come tanti microracconti posti l’uno accanto all’altro e impossibilitati a trasformarsi nel processo di un’unica storia”. Bisogna vedere allora se nel caso concreto l’azione sociale quella che si trasforma di fatto in una legge dello stato sulle pari opportunità, ad esempio, può fungere da connessione fra le azioni di lotta che storicamente hanno visto gli individui e le donne in particolare battersi per la parità dei diritti tra donne e uomini in modo tale da trasformare queste azioni in una sequenza ordinata di azioni che porta allo scopo finale delle pari opportunità e diritti.
In tale prospettiva il “cambiamento” registrato con l’approvazione del diritto di voto alle donne unifica la serie di fasi storiche intermedie che hanno preceduto l’evento, ma registra soltanto la differenza fra stato iniziale e quello finale e finisce, la differenza, per essere l’unico valore pertinente per il giudizio finale. Paradossalmente potremmo dire che “il voto alle donne ha segnato all’interno di alcuni cicli storici di azioni, un “non-cambiamento” notevole, nel senso che di fatto continua ad accompagnarsi alla conferma di alcune caratteristiche di ripetitività e stereotipia che continuano ad identificare gli atteggiamenti discriminatori verso le donne. Insomma, è come se all’interno di un sequenza di comportamenti vi sono alcuni tratti che si mantengono immutati pur nella varietà dei comportamenti. Vedi ad esempio quella certa dose di paternalismo o di gentile concessione da cui sembrano ancora ammantate certe conquiste femminili. Alla fine il rischio è la conferma del “già detto”, il “già conosciuto” ovvero “l’annuncio del ritorno dell’identico”.

In sostanza, trattasi della “violenza simbolica che si fa legge sociale incarnata nelle menti individuali e nella cultura collettiva, che non necessita né di coercizione materiale né di autorizzazione”, ma “passa per richiami all’ordine muti”. È un’intimazione che impone al maschio e alla femmina “maniere permanenti di atteggiare il corpo, posture e modi di acconciarsi, di pensare investiti di un significato morale”.

Si tratta di un dominio ambiguo, evanescente che si nutre di brutalità subdola e sensibilità, di prepotenza consapevole e amore. Questo amore “semplice inganno della specie”, “l’amore talmente cieco che non riesce nemmeno a vedere l’oggetto d’amore” che gli sta di fronte (l’amore che inciampa).
E a forza di proclamare nel mondo “l’evangelizzazione del più forte” quello che alla fine ha sempre la meglio su tutti può capitare che gli adepti di questo mondo osano imporre la loro forza sulle donne, sui bambini, sui diversi, sui vecchi, sui poveri, sui malati.
E in un mondo in cui le risorse cominciano a scarseggiare per tutti e perciò stesso la competizione sarà sempre più esasperata come potremo impedire che oltre all’odio di classe e di gruppo e tra gruppi, non si aggiunga anche l’ “odio di coppia”?

E allora, viva l’amore ovvero questa “possibilità stessa della sospensione della forza e dei rapporti di forza”. “Sorta di tregua miracolosa in cui il dominio sembra dominato o meglio annullato e la violenza virile pacificata e civilizzata e la visione maschile sempre guerriera dei rapporti tra i sessi sembra venir meno”. “L’amore è un eccezione la sola anche se di prima grandezza alla legge del dominio maschile una messa tra parentesi della violenza simbolica” o forse nient’altro che “la sua forma suprema perché la più sottile la più invisibile di tale violenza?”.

Tuttavia, coraggio! Se ci può consolare, un accenno di nausea non mancherà mai. Nel frattempo la «gen¬te» continuerà ad apprendere il pomeriggio e la sera, a casa, guardando la tv o su internet che “uomini e donne” non sono altro che burattini che recitano un’insulsa parodia mediatica delle relazioni sentimentali, dove “tronisti e corteggiatori” si scelgono reciprocamente come fossero al mercato delle vacche o all’asta dei tori. Dove si impara che se vuoi avere successo nella vita “non bastano le buone maniere. Bisogna essere anche stupidi”; e dove si vede che il mondo è in balìa sempre dei più forti. Contro la forza dei pugni, la forza dell’omicidio, la forza del denaro, la forza delle armi, la forza della stupidità, la forza del potere, non c’è scampo. Alla fine resta soltanto l’immagine del funerale di una donna in cui tutti applaudono. Mai uno che fischiasse e rinnegasse questi apostoli della “competizione a tutti i costi”, questi crociati della “lotta ad oltranza contro tutto e tutti”.

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Commenti su "“Assassini con la pistola e giornalisti con la telecamera”: quando il “cambiamento” nasconde lo stereotipo"

  1. Alessandro Felice sei sempre bravo e stimolante ma sei anche temerario e magari potevi finire graffiato dalla giovane che sembra stare bene lì dove tu la vedi ma non è detto perché talvolta mondo può essere visibili e tu hai portato uno ” scandalo” non digeribile li ed allora
    Cose terribili certo ma sicuramente meno di un tempo e meno di molti altrove
    Io ho fiducia che le enigmatiche femmine debbano trovare loro i percorsi di cambiamento e non fidarsi mai troppo dei maschietti/ maschiacci ma non so i realtà molto e non sopporto gli psicanalismi
    La lotta è lunga e dura ma oggi le guerriere sono più forti almeno da noi
    Altrove non mi sembra e per loro come per tutti gli oppressi al di là del genere la vita è molto difficile ed ancora profondamente ingiusta
    Ciao novello illuminista
    Antonio

    Rispondi

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