Una delle cose che sento di aver compreso, lavorando per tanti anni con le persone sofferenti, è che se tu offri loro un’opportunità, esse la colgono. So che può sembrare banale detto così, ma in realtà non lo è affatto. Molto spesso la sofferenza induce uno stato di immobilità difficile da smuovere.
Le persone sembrano non voler avere nulla a che fare con chi gli sta intorno, e preferiscono rinchiudersi in mondi claustrofobici e soffocanti che loro sentono, paradossalmente, più sicuri e tranquillizzanti, forse. Per cui il resto, cioè ciò che è ignoto, spaventa a prescindere. Quello che può suscitare emozioni, anche nuove, può apparire come una minaccia, poiché mette in contatto con un mondo percepito come persecutorio, invadente, traboccante.
È come se mancasse loro una chiave, una qualsiasi chiave, che sia in grado di aprire quella porta che pare. nascondere terrori senza nome. Perché ciò che è al di là lo si osserva dal buco della serratura, e quello che si vede è un mondo circoscritto, un punto di vista stretto nella sua parzialità.
Circa un mese fa arriva in comunità una nuova paziente. Si decide in equipe che io sarò il suo psicologo di riferimento.
La persona è ben curata nel vestire, pulita, forse anche troppo visto che fa circa quattro docce al giorno. Le propongo un colloquio di reciproca conoscenza per spiegarle chi sono e quale sarà il mio ruolo, come lavoriamo in struttura e chi saranno le altre persone che, insieme a me, si occuperanno di lei. Dopo questa breve introduzione le chiedo di parlarmi un po’ di lei, di raccontarmi qualcosa di se stessa. La paziente mi guarda negli occhi molto intensamente e poi mi dice qual è la sua diagnosi. Basta. Io la osservo e la invito a dire qualcos’altro, ad allargare, anche di poco, i suoi orizzonti. Allora, sempre in maniera piuttosto succinta, mi parla della sorella e della madre, e del loro rapporto fra alti e bassi. A quel punto le chiedo: “Ma lei ha qualche interesse?”, lei risponde subito “Sì, scrivo poesie!”. Io sorrido e dentro di me dico “Bingo!”. Le chiedo se ha qualche verso da mostrarmi, ma lei non ha con sé il suo quaderno al momento. Le chiedo di cosa ha bisogno: “Un block notes non troppo grande e una penna”. Glieli faccio recapitare e all’incontro successivo, quando entra per il colloquio, mi dice “Dottore, ho scritto alcune poesie!”. Me le legge e scopro un mondo non solo interessante, ma vasto e profondo. Quella donna così taciturna parla in modo strepitoso attraverso la sua creatività, attraverso la sua arte. La invito a partecipare al gruppo “Arte che cura” e le sue poesie diventano il manifesto di un sentire comune. Lei ha colto la possibilità. L’arte è il modo che ha trovato per esprimere le sue emozioni, il suo sentire. Scrivere diventa un ponte tra lei e il mondo, la mette in contatto con gli altri. Questo le ha permesso non solo di scrivere, ma anche di dipingere il suo sentire sul diario di bordo, scrigno itinerante di un sentire più ampio.
Quello che è accaduto a lei, è accaduto anche ad altri.
Persone che credono di non avere talenti, ma che poi si stupiscono delle proprie capacità e del fatto che mettersi in gioco, se si è positivamente sostenuti, paga da molti punti di vista. Socialità, autostima, condivisione e fiducia. Ma forse sono troppo ottimista…oppure no?
No,non sei ottimista ; sei generoso ovvero in grado di donare agli altri la possibilità di esprimersi e di essere apprezzati per quello che sono.
Questo presuppone una capacità di scoprire i segreti che ciascuno di noi nasconde anche a se stesso per timore die essere deluso ulteriormente
Avete e cura è un binomio fondamentale per permettere alle emozioni di venire alla ribalta e essere nominate.