Riassumo per punti ciò che mi è parso maggiormente importante.
• E’ stato un grande merito della SIEP aver dedicato un intero congresso al tema dei trattamenti residenziali letteralmente scomparso dai congressi di psichiatria italiani sia sugli aspetti di politica sanitaria che tecnico-professionali.
• La partecipazione dei DSM è stata molto vasta mentre quella di gestori privati assolutamente esigua nonostante rappresentino la maggioranza dei posti letto. Credo quindi importante la presenza del nostro Gruppo con due relazioni su Oida System e il follow up dei dimessi dalla Rems.
• I trattamenti residenziali assorbono mediamente in Italia circa la metà del budget per la salute mentale nonostante il numero dei posti letto complessivi sia tra i più bassi d’Europa. Il rapporto tra costi assoluti e relativi ai trattamenti territoriali è pertanto dovuto anche al notevole sottofinanziamento della salute mentale rispetto agli altri paesi.
• I dati di cui disponiamo del Sistema Informativo Nazionale per la Salute Mentale sono parzialmente attendibili per ciò che riguarda il numero delle strutture e dei posti letto ma non attendibili per quanto riguarda la prevalenza sulla popolazione delle regioni perché i pazienti inseriti fuori regione vengono conteggiati nella regione su cui insiste la struttura.
• Non esistono dati nazionali disaggregati per le diverse tipologie di SR.
• L’aumento dei trattamenti per autori di reato ha ulteriormente complicato la situazione.
• Nonostante la difficoltà di programmazione nazionale e regionale nel congresso sono state presentate molte esperienze locali tese a razionalizzare il sistema su: appropriatezza e durata dei trattamenti, dimissioni in abitazioni private, flessibilità di funzionamento, inserimento nella rete sociale.
• La possibilità di far vivere i pazienti in case affittate sul mercato è legata alla disponibilità di sussidi integrativi delle pensioni. In un DSM di Roma vengono erogati 800 euro al mese a più di 150 pazienti. A questo proposito in molte relazioni sia in plenaria che nelle sessioni si è ricordato che nella carta dei diritti dei pazienti psichiatrici dell’OMS esiste il diritto alla scelta su dove abitare.
• Un punto cruciale di molte relazioni è stato se i trattamenti residenziali siano effettivamente orientati alla recovery. L’ impressione condivisa da molti è che non sempre ciò accada. I motivi sono molteplici e tra essi la posizione di garanzia svolge sicuramente un ruolo. La mia opinione al riguardo è che non sia sufficiente l’orientamento psicoterapico e il coinvolgimento delle famiglie a garantire tale orientamento. Esistono altri nodi importanti: paternalismo, medicalizzazione, eccesso di protezione rispetto ai bisogni solo per citarne alcuni.
• Il budget di salute potrebbe essere uno strumento utile sia per il finanziamento che l’orientamento alla recovery. Tuttavia occorre ricordare che si tratta di una metodologia abbastanza complessa e sofisticata ancora oggetto di sperimentazione. I primi risultati e alcune esperienze sono comunque incoraggianti.
• Le relazioni presentate dal nostro Gruppo sono state apprezzate e quella sui dimessi dalla Rems ha ricevuto domande ed è stata oggetto di discussione insieme ad altre sullo stesso tema.
Commento di Pasquale Pisseri
Il rapporto fra psichiatria e residenzialità è ed è stato mutevole e ambivalente: residenzialità come momento essenziale -se non addirittura esclusivo – dell’intervento; come sua possibile fase; o come scacco dello stesso, talora irrimediabile.
Nella prima metà del secolo scorso si è passati dalla prima di queste visioni, giustificante una istituzionalizzazione di massa, alla terza, che stigmatizzava ogni proposta residenziale come preliminare alla rinascita dei manicomi. Questa impostazione ha avuto una sua utilità storica, poiché ogni rivoluzione è necessariamente irragionevole, se la si vuole efficace.
Credo che la nostra visione sia divenuta oggi più articolata e consapevole della complessità del tema. I dati offerti dal Congresso SIEP, ben sintetizzati da Lino Ciancaglini, ci offrono una occasione di riflessione.
Appare confortante la dimensione contenuta della residenzialità nel nostro paese, decisamente inferiore a quella di tanti altri: autorizza a pensare che da noi sia lontana da un processo regressivo che la ri-trasformi da atto provvido in flagello; e a ritenere che non per caso Basaglia sia nato e abbia operato qui da noi (ogni tanto concediamoci un po’ di orgoglio patriottico).
Ma ciò non autorizza affatto a riposare sugli allori. Intanto non è bello che l’importante componente privata abbia poco partecipato: come se fra quegli operatori fosse diffuso il timore del confronto e una posizione fondamentalmente negativa: la residenzialità si agisce, ma non se ne parla.
Quanto ai dati offerti dai partecipanti, mi pare che la descritta molteplicità e varietà di esperienze, non inserite in un piano complessivo, sia certo feconda: ma rende complicata una valutazione, in particolare su alcuni limiti che si evidenziano: fra essi, una scarsa diffusione dell’approccio psicologico-relazionale in confronto a quello puramente medico, e quell’ostacolo alla dimissione che sono i timori prudenziali suscitati dalla posizione di garanzia.
L’importanza di questo aspetto è stato tema di un recente convegno presso la sede dell’Ordine degli Avvocati di Genova.
Una piccola precisazione a proposito della frase “in un DSM di Roma vengono erogati 800 euro al mese a più di 150 pazienti”. Si tratta degli utenti seguiti nelle proprie abitazioni di proprietà o in affitto, il DSM interviene con un sussidio all’abitare solo per quei casi in cui l’utente non dispone di un reddito sufficiente.