Vaso di Pandora

Come affrontare la diagnosi di disabilità di un figlio

Durante i nove mesi di gravidanza, tutti i genitori iniziano a fantasticare sui loro futuri bambini e su come saranno. «Sarà maschio o femmina? Di che colore avrà gli occhi e i capelli? A chi somiglierà di più?»: queste sono solo alcune delle domande più gettonate tra i futuri genitori e i loro familiari, tuttavia c’è un quesito ancora più importante a cui rispondere: starà bene in salute?

Grazie ai moderni esami studiati per valutare la salute del feto, oggi è possibile riscontrare con netto anticipo la presenza di sindromi o patologie che potrebbero invalidare la vita del piccolo. Ci potrebbe essere, però, una leggera falla nel sistema di valutazione, tanto da non riuscire a riscontrare tempestivamente eventuali problematiche, senza contare che alcune malattie potrebbero manifestarsi non esattamente alla nascita, bensì qualche tempo dopo.

Cosa fare in questi casi? Come affrontare la diagnosi di disabilità di un figlio? Sicuramente una diagnosi di questo tipo è l’ultima cosa che i genitori vorrebbero sentire, ma bisogna rimboccarsi le maniche e agire per garantire fin da subito al bambino le giuste cure.

Crollo psicologico e senso d’angoscia

La diagnosi di disabilità porta con sé tutta una serie di emozioni incontrollabili che, se mal gestite, possono provocare scompensi sia nei genitori che nei loro figli. Le cause di disabilità possono essere tante: fattori genetici, danni da parto, problemi metabolici, traumi post-incidente. Qualsiasi sia la motivazione, per un genitore è sempre difficile da accettare.

Il pensiero di un figlio che dovrà portare sulle sue spalle per tutta la vita il peso di una disabilità e tutto ciò che essa comporta viene vissuto quasi come un lutto. Tutte le speranze e le fantasie scompaiono per lasciare il posto ad ansia, stress, angoscia e senso di inadeguatezza.

Spesso si tende a guardare questo tipo di problematiche “da lontano”, come se riguardassero sempre qualcun altro. Quando poi si vivono in prima persona, il punto di vista è tenuto a cambiare in maniera rapida e traumatica.

Disabilità visibili e non visibili

Le disabilità possono manifestarsi in vari modi e con incidenze differenti: visibili, invisibili, di lieve entità o con compromissioni gravi e invalidanti. Qualsiasi sia la diagnosi, i genitori si trovano ad affrontare esperienze nuove e indubbiamente traumatiche.

In questa vita fatta di attenzioni, cure e impegni ancora maggiori, una riorganizzazione familiare è necessaria: bisogna adeguarsi alla nuova condizione senza farsi trasportare e soggiogare dagli eventi. Inizialmente è possibile riscontrare confusione, stress e difficoltà di adattamento: in questi casi, un supporto psicologico può rappresentare una via di salvezza per tutta la famiglia.

Con un percorso psicoterapeutico ad hoc, i genitori possono imparare a gestire le loro emozioni e a trasformarle positivamente. Una buona organizzazione non può far altro che giovare al rapporto con il figlio disabile e con gli altri membri della famiglia.

Le fasi di gestione post-diagnosi

Dopo una diagnosi di disabilità è assolutamente legittimo per un genitore sentirsi disorientato, spaventato e preoccupato per il presente e il futuro del proprio bambino e dell’intero nucleo familiare. Non tutti reagiscono alla stessa maniera, ma è ovvio che ci sia un carico di stress non indifferente con il quale, prima o poi, bisogna fare i conti.

La psicologa Francesca Aprile ha individuato quattro differenti fasi di gestione a livello psicologico della notizia, più o meno comuni a tutti i genitori:

  • Prima fase: sensazione di stordimento, shock, disorientamento, impotenza e incredulità. Si fa fatica a comprendere ciò che è successo, come è successo e quali sono i provvedimenti da prendere per far sì che il bambino non ne risenta, per quanto possibile.
  • Seconda fase: rifiuto e negazione del problema. Si cercano altre diagnosi da fonti mediche differenti, nella speranza che ci sia stato un errore di valutazione e che non esista un problema di disabilità. Durante questa fase i genitori possono erroneamente sviluppare sensi di colpa per l’accaduto e perdere di vista le loro reali responsabilità impegnandosi, ancora una volta erroneamente, nella ricerca disperata non di una soluzione, bensì di una disconferma della verità.
  • Terza fase: emozioni altalenanti. I genitori si trovano a passare repentinamente da stati di rabbia e ira a stati di tristezza e vergogna. Si tratta della fase più difficile da superare: si prende coscienza del trauma ma è difficile affrontarlo e si tende spesso a scaricare ansie e colpe sui medici, sui figli stessi e altri membri della famiglia. Queste emozioni negative, se prolungate nel tempo e mal gestite, possono dar luogo a stati depressivi.
  • Quarta fase: accettazione e adattamento. I genitori acquisiscono consapevolezza e iniziano a rimboccarsi le maniche per adattarsi alla nuova condizione, cercando di riorganizzare l’andamento familiare in base alle esigenze del bambino portatore di handicap.

Rifiuto e iperprotettività: due facce della stessa medaglia

Se i genitori non accettano la diagnosi di disabilità del figlio e non riescono a superare il trauma, si mette in moto un meccanismo dannoso per lo sviluppo del bambino. Sminuendo la condizione di handicap, non vengono presi i giusti provvedimenti e al malato vengono negate le cure di cui necessita.

Allo stesso modo, anche se in maniera contraria, se i genitori si lasciano sopraffare dalla notizia possono sviluppare un senso di iperprotettività nei confronti del figlio, che alla lunga può risultare altrettanto deleteria.

Un percorso psicologico, in entrambi i casi, può essere d’aiuto per superare lo sconvolgimento iniziale, imparare a prendersi le proprie responsabilità e adattarsi in maniera intelligente al nuovo stile di vita, nell’ottica di fornire al bambino i giusti strumenti per uno sviluppo il più corretto possibile.

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