Vaso di Pandora

Abusi sessuali in psicoterapia

Al Pubblico Ministero che lo accusava di violenze sessuali su una paziente ricoverata presso il centro psichiatrico “Vada Sabatia” (Vado Ligure, SV), il dott. Federico Arena, medico criminologo, psichiatra forense, psicologo medico e psicoterapeuta, ha risposto ammettendo i fatti contestati, ma giustificandoli come “una cura facente parte del trattamento medico e psicoterapeutico”.

Se la notizia di persone indagate dalla Magistratura che giustificano comportamenti criminosi con scuse puerili o addirittura grottesche è purtroppo materia cui la cronaca giudiziaria ci ha da tempo abituati, occorre dire che in questo caso la dichiarata incompetenza del medico è tale da essere colpa grave, non soltanto sul piano deontologico, ma anche su quello delle tecniche psicoterapeutiche, a scapito dei diplomi accademici (specialista in criminologia clinica e psichiatria forense, e specialista in psicologia medica) di cui il professionista è fornito, e che meriterebbero con ogni probabilità di essere revocati.

Mi spiego meglio: quando il medico afferma di aver agito a fini “psicoterapeutici”, dovrebbe anche indicare i propri riferimenti dottrinari e scientifici, vale a dire a quali scuole di pensiero, a quali teorie del funzionamento mentale si sia ispirato; e inoltre sul presupposto di quale diagnosi abbia agito e quali meccanismi d’azione terapeutica abbia inteso favorire o promuovere. Il tutto, com’è ovvio, nell’esclusivo interesse della paziente.

Dovrebbe cioè riferirsi a qualche protocollo terapeutico già sperimentato, motivato e approvato da settori ragionevolmente ampi della comunità scientifica, o da linee-guida, oppure da risultati basati su evidenze statistiche.

A meno che, nel caso egli sia un ricercatore che conduce sperimentazioni cliniche, non sia egli stesso pervenuto a “scoperte” tali da giustificare l’adozione di mezzi terapeutici inconsueti, naturalmente dopo aver pubblicato e sottoposto al giudizio critico della comunità scientifica i risultati così ottenuti, perché, com’ebbe a scrivere Freud in una famosa lettera indirizzata a Sándor Ferenczi, “ciò che si sperimenta deve poi essere reso pubblico”.

Naturalmente, tutto quanto ho scritto sin qui è soltanto un espediente retorico, perché è del tutto evidente che non esiste alcunché di scientificamente provato che possa servire a sostegno della grottesca linea difensiva del medico, e pertanto non metterebbe conto di parlarne, se non ci fosse ben altro da osservare. Se cioè non fosse urgente e necessario mettere in luce non tanto l’ovvia assenza di effetti terapeutici nella condotta adottata dal sanitario, quanto piuttosto gli importanti effetti traumatogeni di gravità invalidante e cronica, che di per sé equivarrebbero, se paragonati agli effetti di una malpractice in medicina somatica, a una vera e propria “intossicazione” psichica, capace di produrre danni irreversibili.

Durante la mia non breve carriera ho avuto modo di osservare le conseguenze psicologiche e psicopatologiche degli abusi sessuali nell’infanzia, nell’adolescenza e nell’età adulta, lavorando sia come psicoterapeuta di soggetti in età evolutiva, sia come psicoanalista di persone adulte con alle spalle lunghe esperienze incestuose, sia come consulente tecnico d’ufficio in procedimenti penali e civili inerenti tali fattispecie criminose.

Sugli stati di sofferenza mentale conseguente a comportamenti pedofili o di violenza sessuale su persone adulte (vale a dire su attività sessuali esercitate con persone il cui consenso è da intendersi come assente, parziale o comunque inesigibile) è stato effettuato in psichiatria e in psicologia clinica un enorme lavoro diagnostico e terapeutico, documentato da molte centinaia di articoli, libri e convegni anche e soprattutto internazionali che trattano, fra l’altro e diffusamente, il tema dei disturbi psichiatrici causati da abusi e violenze sessuali.

In questo ambito, una rilevanza particolare assume il problema delle interazioni sessuali fra medico e paziente le cui conseguenze sono, almeno per quanto riguarda la professione psicoterapeutica, assimilabili a quelle delle violenze sessuali all’infanzia. Mi prefiggo di dimostrare questo punto.

La deontologia professionale medica che ha radici lontane nel Giuramento d’Ippocrate ha proclamato fin dal IV secolo a. C. l’obbligo per il medico di astenersi da ogni azione corruttrice sul corpo delle donne e degli uomini, liberi e schiavi.

Se la medicina moderna ci ha costretti ad aggiornare il Giuramento in base alle sensibilità, all’etica condivisa e alle leggi oggi vigenti (ad esempio eliminando dal testo classico il principio “non procurerò l’aborto” perché in contrasto con un dettato giuridico che lo consente), ben poco è cambiato nella sostanza, anche se molto mutati risultano essere i costumi sessuali.

E’ scomparso il riferimento specifico alle “azioni corruttrici”, ma è fatto salvo il principio che impegna a “perseguire come scopi esclusivi la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica dell’uomo e il sollievo della sofferenza”.

Quindi, sulla base di questa linea di principio, è forse possibile fare alcune considerazioni sugli effetti delle interazioni sessuali fra medico e paziente, non soltanto in base a un senso comune che oggi, in tempi di ultra-relativismo etico appare sempre più volatile, ma in base a una ricerca dei possibili effetti patogeni o invalidanti di tali relazioni.

Occorre innanzitutto partire dall’idea che laddove non esista un valido consenso da parte di ambedue i partner, si scivola in maniera più o meno diretta in situazioni in cui il legame è costituito da elementi quali dominio, sottomissione, umiliazione. Sul piano psicodinamico tali relazioni si sorreggono spesso su fenomeni di identificazione con l’aggressore da parte del partner più debole, fino a giungere alla vera e propria “introiezione dell’aggressore”, un meccanismo psichico in conseguenza del quale l’aggressore “scompare come realtàesterna e diventa intrapsichico” (Ferenczi, 1932, p. 96)[1], che comporta l’adozione stabile di un sentimento interiore di persecuzione che abitualmente dà luogo a manifestazioni psicologiche di vario tipo, che possono andare dalla “semplice” perdita dell’autostima all’aspettativa di essere predestinati a fungere da ricettacoli di bisogni altrui, fino al desiderio di compiacere masochisticamente l’altro come unica fonte di riconoscimento, sia pure negativo, di “valore” personale. Oltre alle conseguenze psicologiche, l’attività di intrusione, limitazione o annullamento della personalità dell’altro, dà luogo a manifestazioni francamente psicopatologiche quali la depressione, i disturbi della libido (accompagnati o meno da sexual addiction), gli attacchi di panico, gli eating disorders, i comportamenti autolesivi, le condotte suicidarie, l’abuso di di alcoolici e di sostanze psicotrope, il Disturbo Borderline di Personalità e gli stati dissociativi in genere.

I meccanismi di identificazione e d’introiezione dell’aggressore hanno poi una frequente rilevanza eziologica nella produzione, nella vittima di abusi sessuali, di comportamenti a loro volta abusivi, pedofili o comunque violenti verso persone assoggettate.

Se si guarda alla relazione paziente-psicoterapeuta, diventa poi obbligatorio parlare di transfert, indipendentemente dal modello teorico cui il professionista si ispira o asserisce di ispirarsi.

Poiché il transfert è un fenomeno ubiquitario, laddove ci siano esperienze pregresse di bisogni infantili insaturati da accudimento insufficiente o inadeguato, la relazione terapeutica diventa il teatro ideale nel quale il soggetto è indotto a rimettere in scena situazioni relazionali che già in passato avevano fallito il compito evolutivo.

Ciò significa porre il terapeuta -in via immaginaria- in loco parentis, anche quando non sussistano le condizioni di un’analisi vera e propria; e per questo diventa inevitabile che la trasgressione dei confini sessuali del setting assuma una connotazione concretamente (e non più soltanto oniricamente) incestuosa.

Come affermano Gabbard & Lester (1995,p. 103)[2], I pazienti che hanno avuto rapporti sessuali con i loro analisti, spesso non consentono a se stessi di riconoscersi feriti e traditi fino al momento in cui la relazione si interrompe; a quel punto la rabbia può essere estremamente intensa e non è raro assistere a reazioni che vanno dal suicidio alla denuncia. In modo molto simile alle vittime d’incesto, i pazienti spesso incolpano se stessi di aver corrotto il proprio analista e quindi soffrono di un profondo senso di colpa e di vergogna”.[3]

Possiamo quindi aspettarci che, in materia psicoterapeutica, il sesso fra paziente e terapeuta abbia effetti del tutto paragonabili a quelli delle condotte abusive nei confronti dei minorenni, sia che si tratti di situazioni attivamente ricercate dal curante, sia che si tratti di concessioni a condotte seduttive da parte del o della paziente.

Quando ciò avviene, assume caratteri di ripetitività compulsiva, come mi accadde di osservare molti anni fa in una signora che, esercitando la professione medica dopo aver subito nell’infanzia abusi sessuali ad opera di familiari, era “caduta” nelle spire di una relazione di sottomissione con un infermiere a lei gerarchicamente sottoposto. L’uomo, anche molti anni dopo che il loro rapporto di lavoro e la loro relazione amorosa si erano conclusi, si presentava periodicamente alla sua porta anche dopo molti mesi di assenza e senza alcun preavviso, impadronendosi in un solo colpo, come lei stessa ebbe a raccontarmi “del suo portafoglio, del suo frigorifero e del suo letto”.

La situazione si riprodusse per molto tempo con modalità sempre uguali e senza che la donna riuscisse a sottrarsi a quelle imposizioni, fintantoché si decise a rivolgersi a uno psicoterapeuta, che tuttavia divenne ben presto il suo nuovo amante, senza che, peraltro, i ritorni periodici del partner precedente potessero in alcun modo essere arginati.

L’unica volta che la vidi e mi raccontò l’intera vicenda, alla fine del colloquio mi confessò di essere tornata, il giorno prima, anche dal suo precedente psicoterapeuta a cui aveva esposto l’ennesimo ripetersi della situazione. Il solo consiglio che, in quella occasione, il collega seppe darle fu quello di “riprendere l’analisi”. Con lui!

Questo esempio vale a illustrare l’idea che la circolarità dei comportamenti coatti investe tutti i protagonisti del dramma, e serve a riprodurre costantemente l’impossibilità di uscire dal labirinto.

Forse fu per questo che, se non altro per dare un segno di discontinuità, mi astenni dal propormi come nuovo terapeuta, promettendo alla signora che le avrei fornito, entro pochi giorni, il nominativo di una psicoanalista dotata di esperienza. Così avrei fatto, ma la paziente non mi telefonò mai per avere quel nominativo femminile, e forse -chissà?- proprio per questo inquietante.

Avendo avuto ripetutamente in analisi persone vittime di relazioni incestuose, ho ben chiara l’idea che, per pazienti con tale tipo di esperienza (soprattutto se il sesso dell’analista coincide con quello del genitore coinvolto nella relazione erotica), è praticamente impossibile percepire netta e chiara la figura genitoriale in forma non pesantemente inquinata da elementi erotici, sadici e persecutori, e ciò vale naturalmente anche per l’imago parentale che si riproduce nel transfert.

Ciò significa che in una donna già vittima d’incesto che vada in analisi da un terapeuta maschio, è abbastanza inevitabile che nel transfert si manifestino angosce persecutorie a contenuto sessuale riferite al curante. Ed è per questo che, in pazienti con tale disposizione emotiva, è, a mio avviso, necessario rinunciare alle comunicazioni insature che abitualmente si rivolgono agli analizzanti, qualora si abbia il sospetto che il paziente sia in cerca di conferme circa una nostro presunto trasporto erotizzato. A una paziente con questo tipo di esperienza che mi chiedesse se sono innamorato di lei, non risponderei un “perché mi fa questa domanda?” o un “Lei che cosa pensa?”, perché correrei il rischio di favorire un clima di ambiguità che può condurre l’analisi a stagnazione. Direi, probabilmente, un “no!” secco e senza mezzi termini.

La stessa posizione sdraiata, che esclude il terapeuta dalla vista del paziente, deve rendere quest’ultimo attento alle possibili situazioni di allarme eccessivo che possano manifestarsi in relazione a inconfessabili fantasie della paziente di di essere aggredita sessualmente da lui, e alle frequenti interruzioni della postura, che, oltre a essere un prezioso indicatore in tal senso, a volte suggeriscono come meno disturbante il passaggio alla posizione vis-à-vis, sempre che essa non sia già stata preventivamente richiesta dalla paziente all’inizio del trattamento.

Sulla base di tali considerazioni, non sarebbe inutile indagare, anche a scopo di valutazione del danno, se la vittima degli abusi sessuali avvenuti nell’istituto psichiatrico di Vada Sabatia, non avesse già nel corso della sua vita, subito aggressioni sessuali o intrattenuto relazioni incestuose.

Secondo vari autori, infatti, “è risaputo che un gruppo di pazienti ad alto rischio di sfruttamento sessuale da parte degli psicoterapeuti è quello composto da persone che hanno una storia di incesto (Feldman-Summers, Jones, 1984; Pope, Bouhoutsos, 1986; Kluft 1989; Gabbard 1994). La situazione di assenza di confini viene ripetuta all’interno del setting analitico. E’ frequente che questi pazienti abbiano sempre associato in modo inscindibile l’esperienza dell’essere accuditi con la sessualità (…) Essi rientrano perfettamente nel quadro descritto da Hartmann di fluidità e mancanza di coesione del sé (…) Per queste persone può essere difficile distinguere internamente fra il sé e l’altro, e tra la realtà e la fantasia; sono state trattate come un’estensione del corpo dei loro genitori, per il piacere di questi.(Gabbard & Lester, cit., p. 100).

Anche in psicoanalisi, non meno che in ogni relazione incestuosa, un passaggio all’atto sia pure momentaneo ha conseguenze irreparabili. Così come un padre che oltrepassi i confini della relazione genitoriale cedendo alla passione nei confronti di un proprio figlio molto probabilmente avrà perduto per sempre il proprio statuto genitoriale, rendendo inutile ogni ulteriore atto riparativo, così il passaggio all’atto sessuale ha un effetto, oltreché di danno permanente alla vita psichica del soggetto a causa della definitiva compromissione della stabilità dei confini del sé[4], anche di deflagrazione della relazione non solo psicoanalitica ma anche più genericamente psicoterapeutica.

A differenza delle interazioni medico-paziente in altre specialità, la relazione psicoterapeutica gode di uno statuto epistemologico speciale che richiede l’esistenza di confini relazionali ben precisi. In altre professioni sanitarie, viceversa, i rapporti extraprofessionali con i pazienti possono essere i più svariati senza che ne sortisca un danno per il paziente o per l’andamento della cura.

Ma ciò non vale per le psicoterapie, dato l’alto gradiente simbolico rivestito dalla coppia al lavoro che assume forti connotazioni simboliche di tipo familiare.

Per questo le trasgressioni sessuali assumono una valenza incestuosa che va molto al di là della dimensione simbolica, data la sua drammatica concretezza, e per questo hanno effetti sulla tenuta dei confini del sé rispetto all’oggetto e sulla possibilità di successo non soltanto della cura presente, ma anche di quelle a venire.



[1] Ferenczi S. (1932), La confusione delle lingue fra gli adulti e il bambino. Il linguaggio della tenerezza e il linguaggio della passione, in: Opere, vol. IV (pp. 91-100), Cortina, Milano 2002.

[2] Gabbard G. O. & Lester  E.P, (1995), Violazioni del Setting, Milano: Cortina 1999.

[3] Secondo Ferenczi (1932, cit.) il bambino vittima di abuso sessuale introietta il senso di colpa dell’aggressore (che, in tal modo, se ne sbarazza).

[4] i confini interni fra le rappresentazioni del sée dell’oggetto sono sgretolati, Gabbard & Lester, cit., p. 100

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