Abusi su bambini affidati
di Roberta Antonello, segue un editoriale di Giovanni Giusto
[Roberta Antonello] Difficile è il lavoro dell’educatore. Difficile, carico di emozioni e responsabilità.
Di fronte alla notizia dell’educatore di Celle mi stupisco ancora una volta dell’assurdo modo in cui si distribuiscono gli incarichi, si richiedono le formazioni, si svolge un controllo sull’operatività e professionalità.
La responsabilità di un professore di liceo è grande ma quella di un insegnante di scuola materna è ancora più grande, delicata, ha di fronte bambini, persone a lui affidate, senza potere. E così è per l’educatore. Ma la preparazione di un professore di liceo, di scuola superiore, di un professore universitario non è paragonabile a quanto richiesto, invece, ad un educatore. Ci sono ottimi educatori, educatori reclutati in base alla loro buona volontà, al loro desiderio di aiutare, spesso per aiutare anche sé stessi, come del resto capita a molti che si dedicano alla psichiatria, la loro formazione è varia, da chi è laureato in scienze dell’educazione a chi ha avuto un diploma regionale a chi sta ancora frequentando un corso universitario (lo so dagli stessi studenti del corso di laurea in tecnici della riabilitazione psichiatrica).
Con molta o poca esperienza sono inseriti in realtà difficili (comunità per adolescenti, bambini, affidi ecc.) e soprattutto lasciati agire senza una competente supervisione, senza che sia riconosciuta la loro continua necessità di verificare le proprie emozioni, di riflettere sui progetti e sugli obiettivi, di parlare delle difficoltà. Si incontrano talvolta con il medico, l’assistente sociale, per lo più lavorano da soli (mi riferisco ovviamente a certe realtà, per fortuna non tutte, ma alle situazioni in cui poi esplode il comportamento che sembra possa essere visto solo dalla telecamera nascosta o dalla memoria come in questo caso di ragazzi abusati).
E’ vergognoso ridurre il problema alla colpa di quell’educatore. E’ vergognoso dimenticare che la competenza che si chiede a chi deve svolgere un lavoro sostitutivo o complementare alla funzione genitoriale deve essere diversa da ora, non deve permettere che si ripetano violenze ed abusi ma nemmeno errori, superficialità, non cura, spesso non visibili, ferite che rimangono nella vita delle persone a loro affidate. Questo è possibile solo se ci si rende conto dell’importanza di una formazione professionale e di un supporto continuo, non certo delegabile solamente ad operazioni di controllo. Insomma non come ora.
Un insegnante di greco deve sapere il greco, un educatore deve conoscersi a sufficienza per fare il proprio lavoro responsabilmente e non essere travolto da sue emozioni perché solo, senza un aiuto, una supervisione, una verifica in un gruppo di lavoro in cui possa parlare. Deve avere persone competenti a cui rivolgersi, che lo possano aiutare a continuare il suo lavoro con sempre maggiore professionalità. O smetterlo perché non a lui adatto. Ma non dopo il danno.
Facciamo in modo che non possa avvenire, come non avviene che un professore di greco non sappia il greco e insegni il greco.
Chiediamo che ci sia un’altra preparazione e un altro controllo.
Nessun spontaneismo (formazione), nulla si impara sul campo se non si è aiutati ed accompagnati (supervisione) e non ci dovremo stupire o inorridire come ora quando i più deboli sono in mano a incompetenti soli. Diventati delinquenti.
Concordo con te sull’importanza delle formazioni e delle supervisioni. Ti parlo in prima persona e a nome di un’equipe che lavora quotidianamente con un utenza complessa come quella degli adolescenti. Un’equipe di giovani terapeuti in continua formazione (suoervisioni e formazioni redancia, scuole di psicoterpaia, tirocini, seminari, analisi persoanle, ecc..) e la quale spesso non sembra mai abbastanza. Non solo è necessario ma indispensabile affidarsi ed essere sostenuto da chi ha più esperienza nel campo, da chi ha un’attenzione verso il gruppo di lavoro (costituito da persone, non solo da figure professionali che investono e ricoprono un ruolo), da chi ha due occhi più obiettivi dei tuoi (alle volte annebbiati dalla frustrazione) e può aiutarti a ritrovare la motivazione se persa, a migliorare, a sviluppare una capacità di pensiero se carente. Io mi sono sempre battuta per questi aspetti (con soddisfazione perchè in fondo le mie – dico “mie” in nome del “mio” gruppo- richieste di aiuto sono sempre state accolte) e personalmente mi fa un’enorme piacere che i “senior” di questa professione focalizzino l’attenzione su questo aspetto: lo trovo un segno di grande umiltà, professionalità…e umanità.
D’altronde ciò che trasmettiamo ai nostri giovani e scalmanati ospiti è un senso di fiducia, rispetto, cerchiamo di soddisfare il loro bisogno di essere accolti e compresi…quando tutto questo lo viviamo noi operatori è una sensazione bellissima, che mette in moto quell’impegno, dedizione, passione ed entusiasmo che alle volte va a scemare.
Credo che l’esempio portato da Valeria sia molto significativo, ma non abbastanza rappresentativo della situazione generale che è carente. Quello che so dell’équipe di Tuga 1, è molto poco, perché si tratta di una conoscenza molto recente, ma l’idea che me ne sono fatto è quella di un gruppo affiatato, culturalmente omogeneo di operatori che condividono valori analoghi e che hanno affrontato percorsi formativi difficili, lunghi e costosi, richiedenti impegno, fatica e dedizione, sforzi che non sarebbero incoraggianti per persone spinte da altre motivazioni e che costituiscono di per sé un elemento di selezione, non definitivo però sufficiente. E’ noto d’altra parte che i pedofili preferiscono nascondersi nelle professioni di cura, educative, sportive, e che in genere possono agire indisturbati là dove la coesione dell’équipe è lasca o non c’è affatto; ciò perché la situazione generale delle istituzioni terapeutiche, assistenziali educative è ben lungi dal poggiare su solide basi.
Per quanto riguarda gli episodi di abuso sessuale a carico di minori, io sarei già abbastanza contento se ogniqualvolta qualcuno degli aggressori viene scoperto, non venisse ridestinato, dopo poco tempo e magari in altra veste a compiti analoghi e in posizioni dove potrà riprendere la propria azione distruttiva. Parlo per cognizione di causa.
Ho un figlio gravemente disabile con la sindrome di Potocki Lupski.
Io e mia moglie non siamo più giovanissimi, lo abbiamo avuto in tarda età: la cosa che più ci tormenta è che un giorno debba entrare in una comunità assistita, che si prenda cura di lui se non dovesse diventare autonomo, crescendo.
Notizie come queste, di abusi e maltrattamenti su minori, su disabili affidati a centri che in qualche modo dovrebbero salvaguardarne la fragilità, offrendo un supporto terapeutico e un’assistenza specialistica, diventano un dolore inesprimibile per un genitore che un giorno dovrà, per necessità, rivolgersi a strutture come queste.