Commento all’articolo: “La seconda vita dell’archivio Basaglia” apparso su La Repubblica, il 05/09/2023
E’ una iniziativa importante, quella di custodire “a futura memoria” questa documentazione della rivoluzione basagliana. Ma questi ricordi non vanno imbalsamati: devono contribuire a riflessioni e bilanci. Cosa resta oggi di quella rivoluzione? Quali le prospettive?
Ogni rivoluzione è fatta di contenuti acquisiti irreversibilmente; ma anche di entusiasmo, di spinta volontaristica che è destinata ad affievolirsi progressivamente: si torna così, con l’affermarsi di una autorità, a un “come allora” ma tuttavia “diverso da allora”. Si uccidono i Sovrani, ma poi arrivano Napoleone o Stalin.
Certo oggi non si può tornare a una concezione della sofferenza mentale pre- basagliana: esprimiamoci così, ma è ovvio che il cambiamento non nasce tutto nella sua mente. Basta ricordare, fra tanti, personaggi come un Goffmann, un Foucault, un Binswanger che da prospettive diverse hanno contribuito a incrinare il modello della psichiatria classica.
Tempo ne è passato. Fra i tanti fattori nuovi, inizierei col parlare della attuale forte spinta migratoria, col suo panorama di differenze culturali, reciproche diffidenze, connessa accentuata spinta a difendere la propria identità e il proprio modo di pensare e di porsi: tutto ciò tende ad accentuare e moltiplicare situazioni di disagio e contrasto. Questo si verifica sullo sfondo della condizione di disagio economico-sociale abitualmente vissuta dall’immigrato, che ripropone ancora una volta la frequente connessione fra esso, la trasgressione, e quello che chiamiamo disturbo mentale. L’internamento d’urgenza e semi-volontario dell’immigrato in strutture più o meno improvvisate, nate per contenerlo in qualche modo, non è certo identico al classico internamento manicomiale: e tuttavia lo ricorda.
Questo ci fa pensare a come, dove e quando si è sviluppata la demistificazione di Basaglia, motrice di un movimento appassionato tanto da creare un totem: Marco Cavallo. Non a caso, ciò è accaduto in luoghi come Gorizia e Trieste, area che nei decenni precedenti – anni 40 – aveva vissuto una forte immigrazione ( e connesso protratto disagio) legata alla fuga – espulsione dall’Istria di italiani spesso non bene accetti neppure in Italia: la loro presenza con serie e prolungate difficoltà di inserimento credo avesse contribuito ad accrescere le aree di marginalità e disagio sociale e il conseguente intensificarsi del ricorso a un internamento assistenziale – repressivo: pane per la riflessione basagliana e della sua scuola.
Non è male ricordare infatti che la psichiatria moderna , come l’abbiamo conosciuta, ha preso forma all’interno di istituzioni nate ad accogliere, assistere e controllare varie forme di marginalità, di non autosufficienza, di trasgressività. Tale origine e connessione è stata poi a lungo oscurata dallo sviluppo di un organicismo in larga parte poco documentato, che riponeva ogni fiducia esclusiva nell’esame scientifico del cervello e del suo funzionamento. Le pur importanti ma parziali acquisizione dell’epoca hanno finito per oscurare ogni fattore che sfuggiva alla metodica scientifico – naturale; anche perché questa era profondamente rassicurante.
Che succede oggi? C’è una tendenza a riproporre un nuovo tipo di organicismo, certo meglio armato rispetto a quello classico – arcaico grazie allo sviluppo delle neuroscienze. Tende a legarsi – ma non necessariamente – a un ben noto approccio classificatorio: favorito questo anche da esigenze contabili delle Compagnie di Assicurazione cui è affidata negli USA la tutela economica delle condizioni morbose: e sappiamo come gli USA cerchino di imporre una egemonia scientifico – culturale anche in campo psichiatrico, con strumenti come il DSM. Basta aprire Pubmed per rilevare l’ampio spazio occupato da contributi dall’impostazione francamente oggettivante. Il modello di ricerca più ricorrente è la valutazione degli esiti di un qualche trattamento, riferiti a specifiche entità morbose; il tutto statisticamente convalidato. Nulla da obiettare, ovviamente, a quell’insostituibile strumento che è la validazione statistica, ma questa è attendibile solo se si fonda su entità diagnostiche indiscutibilmente solide: e non è questo il caso delle diagnosi psichiatriche.
Ma questo insieme con le sua potenzialità reazionarie è oggi – si spera – meno incline che nel passato a una visione totalizzante. Questa è più che una speranza, anche perché è obbligata a confrontarsi con altre visioni.
Intanto, è impossibile oggi ignorare la dimensione sociopolitica del problema psichiatrico: è questo il tema favorito da una scuola di pensiero con esponenti epigoni di Basaglia, che se ne ritengono i veri continuatori. E’ ovvio che la prassi psichiatrica ha comunque luogo in uno specifico contesto sociopolitico. Purtroppo, il problema si inquadra oggi in un contesto di crisi del welfare e specificamente della assistenza medica pubblica generale: tutti sappiamo delle intollerabili liste di attesa per esami clinici anche importanti. In questo quadro più generale si inserisce l’attuale crisi dei Servizi di Salute Mentale. Essa nasce da carenze strutturali e anche dal calo della tensione ideologico – culturale, cosi intensa nel ’78: lo stato d’animo collettivo di allora nel Servizio territoriale di Savona aveva la fisionomia del bioniano assunto di base di accoppiamento: “se staremo insieme e ci ameremo abbastanza a lungo, genereremo la Salute Mentale”. Oggi l’impegno volontaristico, quando ancora presente, rischia comunque di essere frustrato dall’insufficienza dei mezzi. Ancora una volta il paziente mentale – il debole fra i deboli – rischia di essere sacrificato per primo. Necessario alzare la guardia.
Del tutto giustificato dunque l’interesse di questi Autori per temi come: i rapporti fra stato dell’assistenza psichiatrica e situazione politica; la critica al concetto di pericolosità sociale; le politiche regionali e lo stato dei Servizi; l’etnografia come introduzione a una politica della salute; e via dicendo.
Ma è chiaro che quest’ottica nell’enfatizzare la dimensione del disagio socioeconomico e dell’intreccio con la politica rischia di scotomizzare quella della sofferenza personale e dell’incontro interpersonale, così ampiamente lumeggiata dagli approcci psicanalitico e fenomenologico: quest’ultimo fonte privilegiata di ispirazione per Basaglia, che invece tanti e tanti anni fa ho personalmente sentito precisare, e forse vantarsi, di “non essere psicanalista”, dichiarando invece la propria formazione e ispirazione fenomenologico – esistenziale, tuttavia non senza legami con il marxismo, forse sull’esempio di Sartre. La psicanalisi aveva invece incontrato diffidenza scontando le sue origini fatte di rapporto duale privilegiato, rivolto a clienti facoltosi; limite questo oggi ampiamente superato, soprattutto grazie allo svilupparsi di una attenzione alla dimensione gruppale e all’impegno di alcuni psicanalisti nei Servizi e nelle Strutture.
E’ a quest’ottica che mi sento personalmente più vicino, vedendo la prassi psichiatrica fondamentalmente come un incontro fra persone, pur nella consapevolezza della asimmetria della situazione terapeutica: se la si perde, si fa confusione; ma forse il lavoro psichiatrico consiste fondamentalmente nell’operare per ridurre tale asimmetria. Riterrei ciò centrale, mantenendo però la consapevolezza del contesto socioambientale del collegamento col dato biologico e con le risultanze della ricerca epidemiologico- statistica fondata necessariamente su tentativi di diagnosi. Credo e spero che ciò non tradisca il grande e sempre attuale messaggio di Basaglia. Egli del resto non aveva mai negato l’importanza di questi aspetti, ma (espressione sua) li metteva “fra parentesi”: ciò che è stato funzionale e forse necessario alla sua opera; ma le parentesi prima o poi si aprono e risolvono, lo sa chi a scuola studia aritmetica.