Vaso di Pandora

Tra il dire e il fare: esercizi di coscienza istituzionale

Dal primo luglio entra in vigore la nuova regolamentazione delle strutture residenziali psichiatriche in Piemonte. Dopo anni di battaglie, ricorsi al Tar, proroghe, delibere che correggevano delibere, la Giunta regionale ha approvato una norma, la Dgr 84, che segna alcuni progressi rispetto alle versioni precedenti e ha indotto gestori, associazioni ed enti locali a scendere dalle barricate, sottoscrivendo l’accordo.

Ma non tutti i nodi sono risolti. Ben evidente rimane sul tappeto la gravissima questione del reperimento di figure professionali con i titoli previsti dalla legge. E non solo. Spesso il diavolo si annida nei dettagli, nelle procedure esecutive e nella burocrazia, che possono contraddire in pratica quello che il legislatore ha solennemente affermato in linea di principio. Ad esempio la nuova Dgr è stata molto apprezzata dalle associazioni di utenti e familiari per aver sottolineato la libertà di scelta del paziente. Nella lunga parte introduttiva c’è molta enfasi sulla necessità di combattere lo stigma e l’isolamento sociale, si fa riferimento al modello del budget di salute, che valorizza al massimo le preferenze dei pazienti nel definire percorsi personalizzati.

Ebbene, date queste premesse teoriche si fa fatica a comprendere come possano comparire, nello schema di contratto proposto ai gestori, disposizioni clamorosamente dissonanti. Ad esempio l’obbligo della struttura di comunicare “senza ritardo” alle “autorità di pubblica sicurezza” l’allontanamento non autorizzato dell’utente. Proprio così. Alle autorità di pubblica sicurezza. E non degli utenti sottoposti a restrizioni giuridiche, o in condizioni cliniche critiche, ma di qualunque utente. Ci auguriamo che si tratti di un lapsus, sfuggito ai tecnici della Regione che sarà prontamente corretto, altrimenti sarebbe difficile allontanare il sospetto che, dietro alle belle parole, si nasconda la solita visione custodialista, che dà per scontata la pericolosità dei pazienti e la funzione di puro controllo sociale degli operatori.

Un discorso analogo vale per l’obbligo di stipulare una polizza di responsabilità civile. A differenza del testo della Dgr, lo schema di contratto prevede esplicitamente che l’assicurazione debba valere per “i danni causati da utenti ad altri ospiti agli operatori, a terzi e alle cose”. Non vengono nemmeno menzionate altre fattispecie di responsabilità civile; evidentemente si dà per scontato che solo gli utenti possano “fare danni”. Non è nemmeno chiaro a quali tipi di danni ci si riferisca, arrecati in quali contesti (magari nel corso di un “allontanamento non concordato”, in attesa dell’intervento della pubblica sicurezza?).

Ci sembra evidente che l’uso poco avveduto di espressioni come queste in documenti ufficiali di tale importanza debba essere evitato; non solo per le generiche implicazioni stigmatizzanti ma per le rovinose ricadute pratiche che può comportare.

Un altro fronte burocratico, con implicazioni cliniche potenzialmente assai pericolose, è quello dell’attività delle commissioni di vigilanza. In forza di alcune piccole frasi, in apparenza innocenti, comprese nella norma, le commissioni possono impartire disposizioni che contraddicono con l’intero impianto culturale della riabilitazione psichiatrica. Ad esempio, basandosi su poche parole contenuta in tutte le ultime Dgr (“è richiesta l’organizzazione dei locali in modo da minimizzare i rischi derivanti da condotte pericolose degli utenti”) capita che, in assoluta buona fede, si diano prescrizioni aberranti per il modello della comunità terapeutica. Si tornano così a vedere finestre con orribili inferriate, porte blindate, enormi mazzi di chiavi, arredi imbullonati alle pareti “perché i pazienti potrebbero usarli per offendere o per barricarsi in stanza” (e allora perché non fissare anche sedie e tavoli ai pavimenti? Vietare piatti e posate, come avveniva in manicomio?).

Dal momento che sarà predisposta una nuova checklist regionale per uniformare le pratiche delle commissioni per le autorizzazioni e gli accreditamenti, è indispensabile che il punto di vista clinico venga preservato e non ci si arrenda senza condizioni alle esigenze della burocrazia e della psichiatria difensiva. In comunità è innanzitutto l’ambiente che cura, il clima relazionale, i principi che regolano il rapporto di fiducia fra utenti e operatori. Se le strutture residenziali devono essere luoghi terapeutici, come la Dgr 84 richiede con forza, allora si consenta di organizzarle secondo i principi della psicoterapia residenziale, consolidati in decenni di esperienza e buona pratiche.

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Commenti su "Tra il dire e il fare: esercizi di coscienza istituzionale"

  1. La puntuale osservazione di Enrico ci avverte del rischio che si nasconde dietro a manifestazioni di intenti che poi vengono nei fatti traditi
    La tendenza all’esclusione ed all’embargo azione dei pazienti psichiatrici sembra far parte per alcuni di un corredo genetico difficilmente scalfibile
    Il ricorso alla pubblica sicurezza non motivato da reali necessità come la Deleg a incompetenti ( psichiatricamente) controllori del rischio ci porta indietro di 100 anni…….

    Bisogna risvegliare le coscienze

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  2. Aggiungerei la libertà della scelta del luogo di cura,anche fuori regione. Visto che molti pazienti vengono spostati, in base a dettami dirigenziali, senza tener conto del percorso terapeutico.

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  3. Si torna indietro…
    Dalla spinta civica, evolutiva,quasi subeuforica degli anni ‘90, che hanno visto nascere luoghi di cura specializzati ,comunità terapeutiche,progetti di vita alternativi,borse lavoro ecc, stiamo nuovamente rischiando di precipitare nella stigmatizzazione,nella custodia e nella repressione.
    Vorrei che i funzionari piemontesi vivessero una giornata in Rems o in una qualsiasi delle nostre comunità.
    La centralità dei bisogni del pazienti ci costringe ad un lavoro estenuante giornaliero,difficile ed affascinante.
    Non abbiamo tavoli ed arresti inchiodati al pavimento,abbiamo operatori che tutti i giorni mediano,accompagnano,chiariscono,aiutano,accolgono.
    Noi ci crediamo ancora…

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  4. Quando ho iniziato a lavorare in comunità, ricordo un paziente, allora mio preferito e che ora non c’è più, che, quando era arrabbiato per qualche limite o divieto imposto dagli operatori li definiva in modo sprezzante “guardia matti” (con qualche altro aggettivo di contorno..)
    Io non mi sono mai sentita così, ho sempre immaginato un guardarsi reciproco e reciprocamente arricchente.. ma non mi sono mai nemmeno sottratta al pensiero che per qualcuno tale definizione potesse essere calzante.. Ed è un pensiero, vedo, sempre attuale

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  5. Il concetto di una specifica pericolosità legata al disturbo mentale ha un decorso carsico: pare scompaia, poi a tratti riappare come in questa regolamentazione adottata dalla Regione Piemonte.
    Le sue radici sono molteplici: importante quella di carattere proiettivo. Il bisogno di negare la componente di aggressività insita in ogni essere umano, e fonte di colpa, induce a collocarla in una figura aliena, “altra da me”: il folle, ma non solo il folle; anche il nemico del momento, in quell’endemico fatto sconvolgente che è la guerra; oppure lo straniero, l’immigrato. Nella figura del folle, così simile a noi e così diversa, collochiamo le nostre angosce proprio perchè in qualche modo ci riconosciamo in lui come in uno specchio deformante, e non lo vorremmo. La sua è una angoscia destrutturante, che compromette la stessa integrità del Sè: è ben difficile condividerla, quasi identificandola con la propria, e la risposta più spontanea è “non mi riguarda, non è cosa mia”. Possiamo controllare questa angoscia in modo superficialmente benevolo, come nelle barzellette sui matti, che tuttavia comporta una presa di distanza che attribuisce a lui certe caratteristiche più disturbanti e colpevoli, da allontanare dallo spazio mentale o anche fisicamente. Ciò si era concretato in disposizioni di legge come quella del 1904; anche se va ricordato che considerava la pericolosità come un requisito per “meritare” l’attenzione del potere statale, che limitava il proprio intervento e la relativa spesa a condizioni cliniche atte a turbare la collettività.
    Concetto superato, si dirà: tuttavia persiste formalmente in campo medico- legale, poichè si chiede al perito se il paziente dichiarato incapace sia pericoloso o meno. Ciò, è evidente, discende dal concetto di incapacità di intendere e volere che – solo parzialmente modulato da quello di capacità scemata – nasce da una distinzione molto netta fra sano a malato: il primo agirebbe liberamente e responsabilmente, quindi può esser ritenuto colpevole se sbaglia; il secondo è spinto da impulsi incontrollabili e da nozioni irrimediabilmente errate, un po’ come l’animale – macchina di Cartesio. Sappiamo tutti come la situazione sia ben più complessa di così, a partire dal controverso concetto di libero arbitrio e da quello opposto di determinismo psichico. E’ stata avanzata in passato una proposta non priva
    di senso: abolire il concetto di incapacità, intervenendo invece sulla pena, modulando diversamente caso per caso il rapporto fra la componente sanzionatoria e quella educativo-riabilitativa e al limite terapeutica. Ciò potrebbe portare un modesto contributo al contrastare le componenti scissionali del nostro atteggiamento di fronte al folle.
    Ai fattori metastorici, psicologici, se ne associano dunque di storico-sociali.
    Non torno qui sulla attuale crisi della ricerca di senso, così ben lumeggiata di recente da Caterina Vecchiato nelle sue fondamentali ricadute sul rapporto con la sofferenza mentale.
    Ritengo importanti anche gli aspetti economici. Ai primi del ‘900 era in corso da noi quella che Marx aveva definito accumulazione primitiva: l’esigenza di mettere insieme un capitale d’impresa imponeva notevoli durezze alle classi sacrificate, da cui provenivano in larga parte i pazienti mentali riconosciuti come tali. Bianchi, relatore della legge del 1904. scriveva lucidamente (cinicamente?) : “Le famiglie, che in alcune province sono più disoccupate, tengono più facilmente i mentecatti nel loro seno, ma il giorno in cui saranno più occupate, in cui ogni componente di ciascun famiglia dovrà produrre assai più di quel che attualmente produce, sentiranno la necessità di inviare più prontamente, e senza preoccupazione, i malati di mente ai manicomi, ciò che produrrà un gran numero di folli in questi istituti”. Una impostazione del genere lasciava poco spazio a una gestione almeno civile delka sofferenza mentale.
    Al contrario, il movimento del ’68, matrice della riforma psichiatrica, si è sviluppato quando in Italia il miracolo economico non era finito. Il benessere diffuso apriva alla possibilità di criticare a correggere gli angoli bui della affluent society, contestandone squilibri e ingiustizie.
    Il benessere oggi non è venuto meno, ma ci sentiamo meno sicuri: c’è il rischio che ciò induca qualcuno – magari dotato di poteri decisionali – a ritenere un lusso l’occuparsi adeguatamente dei soggetti deboli, occupandosi più che altro dei danni che potrebbero provocare. Necessario difenderli: ben vengano dunque circostanziate denunce come quella di Di Croce.

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  6. A me preoccupa soprattutto la progressiva assuefazione di tanti operatori a questa deriva. Molti colleghi, in questi giorni, mi guardano perplessi: perché ti agiti tanto? Ho raccolto i seguenti commenti personali dei due psichiatri piú potenti in Regione, da anni consulenti dell’Assessore: “i gestori sono d’accordo” ; “Non se ne può fare a meno, ce lo chiedono, è la posizione di garanzia”. Io mi chiedo, garanzia per chi? Non certo per i pazienti. Abbiamo la possibilità di essere terapeuti migliori accettando la funzione di guardiani? I manicomi sono stati messi sotto scacco da un’avanguardia di disobbedienti, poi concretamente superati da pionieri razionali, pragmatici e gran lavoratori. Credo sia indispensabile mantenere in vita entrambi i cespiti di questa eredità ideale, o la nostra idea di lavoro in psichiatria morirà. Io non intendo ottemperare al’obbligo di chiamare i carabinieri per ogni allontanamento, si valuterà caso per caso, come abbiamo sempre fatto. Confido che troveremo una modalità condivisa e realistica, come Raggruppamento, per sostenere formalmente questa posizione

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  7. A me è sembrato molto chiaro l’articolo in cui Enrico Di Croce esprimeva le sue preoccupazioni a proposito delle possibili ricadute negative sullo “stile di lavoro” delle strutture residenziali psichiatriche, sottoposte, in questo momento, a revisione organizzativa in Piemonte.
    In esso esprime il timore, da me condiviso, che, seppure apparentemente non auspicate, si ripropongano, nella realtà quotidiana, modalità operative che rischino di trasformare, almeno in parte, il ruolo degli operatori da “prevalentemente curanti” a “soprattutto custodi”, da fautori e gestori di un possibile cambiamento in tranquilli garanti dell’immobilità e, quindi, della cronicità immodificabile.
    Vorrei intervenire su un punto: quello in cui si auspica il cambiamento di una mentalità, diffusa nella popolazione, che seguita a pensare al matto come pericoloso, dal quale occorra, in primo luogo, difendersi.
    Io penso che questo sia un punto importante: c’è un modo per incidere sulla mentalità prevalente, sul modo di concettualizzare la malattia mentale, che resiste nelle retrovie delle menti di ciascuno, compresi quelli deputati alla stesura delle DGR, come ipotizzato dall’autore dell’articolo e che risulta così difficile da avvicinare e cambiare?
    E’ ormai noto che la malattia psichiatrica è legata non soltanto a quello che avviene, ad un certo punto, nella mente di un individuo ma, in misura ben più determinante, a quello che accade nella rete di relazioni significative in cui ogni paziente è vissuto ed ha imparato a costruire le relazioni che, poi, ripropone con le persone che incontra nella vita.
    Proprio di questo si occupano le residenzialità psichiatriche: della possibilità di riprodurre, come è inevitabile da parte di ogni paziente, quel tipo tendenziale di costruire relazioni, il più delle volte problematico, imparato a casa, di vivere le crisi legate alla sua riproposizione in ambito comunitario, di prendere in esame e sottoporre a critica il proprio “stile relazionale”, con l’aiuto degli operatori della CT.
    Per fare tutto questo, come giustamente sottolinea Enrico DI Croce, è necessario un “clima”, un’atmosfera in CT che renda possibile il riconoscimento dei problemi, a partire dalle difficoltà relazionali che si verificano con gli operatori, che sono, così, chiamati a svolgere sia la funzione educativa che quella contenitivo-terapeutica.
    Questo clima, necessario a svolgere una funzione così delicata e complessa bisogna saperlo costruire, far capire a tutti, dentro e fuori della CT, quanto sia importante e non lasciare che si appassisca, in quanto costa molta fatica tenerlo in vita.
    Con lo scopo di contribuire alla costruzione e al mantenimento di un “clima terapeutico appropriato”, ritengo che possa risultare molto utile costruire, all’interno delle strutture residenziali psichiatriche, la possibilità di far esperire a pazienti, familiari e operatori, la partecipazione ad un gruppo a cui siano invitate tutte e tre le categorie direttamente coinvolte nella “organizzazione” del problema psichiatrico e nella sua gestione (1), proprio per mettere a confronto le parti “vecchie” della personalità di ogni paziente con le parti “nuove” di sé, quelle sperimentate in CT. In modo che i genitori, in primis e i familiari in generale, abbiano modo di rendersi conto di quanto essi fossero stati “attori” e non soltanto osservatori nella situazione in cui il paziente aveva manifestato il suo disagio e, soprattutto, ora che si tratta di far rientrare il figlio/figlia in casa o, comunque, di tornare ad avere a che fare più intensamente con lui, quando è fuori della CT, di incamminarsi non nella direzione di tornare indietro ma di procedere al fianco del paziente nel suo percorso evolutivo.
    Se si seguono questi passaggi, io penso che le persone che avevano un’idea della malattia mentale prima dell’insorgere della sofferenza del figli/figlia, ora possano farsene progressivamente un’altra: come diceva il padre di un paziente in un gruppo, rivolto a genitori con un atteggiamento più tradizionale: “rendendosi conto che hai davanti una persona, con i suoi desideri, con cui devi fare i conti, non uno a cui ritieni di dover indicare, se non imporre, che cosa deve fare per stare bene”.

    Andrea Narracci

    (1) Come avviene da più di un anno , sistematicamente, in ognuna delle CT del Gruppo Redancia.

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  8. Durante la mia lunga militanza in strutture accreditate con il SSN, dopo aver visto decine di Dgr, ricorsi e controricorsi, ho imparato a mie spese che coloro che programmano e legiferano stabilendo requisiti organizzativi e strutturali sono dei professionisti, che pur avendo titoli, non hanno mai operato sul campo e non sempre hanno contezza della realtà rendendo, pertanto, più difficile il nostro operare.

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  9. Mi identifico totalmente con la frase di Enrico Di Croce
    “Io non intendo ottemperare all’obbligo di chiamare i carabinieri per ogni allontanamento, si valuterà caso per caso, come abbiamo sempre fatto”.
    Ho pensato al vecchio pescatore di De Andrè.
    Io voglio essere quello che dà del pane non quello che chiama i carabinieri. Per passione e professione cerco chi, nella sua libertà, si allontana. Se fortunatamente riesco a raggiungerlo camminiamo insieme, a volte riusciamo anche a tornare. Se non ci sono pericoli mortali non chiamo i carabinieri e non permetto a nessuno di obbligarmi a denunciare una persona libera di andare lontano quanto vuole. Forse è una svista del legislatore ma le sviste seguono pulsioni inconsce. Bene ha fatto Enrico a porle al centro della nostra attenzione.

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