Dopo la lettura del libro di Andrea Narracci
Quando ho terminato la lettura del libro di Andrea Narracci e ho iniziato a chiedermi cosa avrei potuto scrivere, sono entrata in contatto con il ricordo di tre momenti che più di altri hanno segnato il mio percorso professionale e inevitabilmente anche la mia crescita, nella vita.
Il primo risale a quando ancora tirocinante mi trovai ad assistere ad un gruppo condotto da una psicoanalista in una comunità terapeutica per pazienti con gravi disturbi di personalità. Ricordo ancora il paziente, si chiamava Pietro, aveva poco più di 20 anni. Qualche tempo prima, si era buttato dalla finestra convinto che qualcuno lo stesse inseguendo. Continuava a parlare ininterrottamente del cadere che non era soltanto una sensazione ma una paura costante, quasi la convinzione che sarebbe riaccaduto. Al di là dei contenuti, ricordo che nei suoi interventi quella psicoanalista gli parlava. Parlava con lui, non di lui. Era interessata ad ascoltarlo, ad entrare in quella sensazione così terribile che gli impediva di muoversi. Di vivere. Lei parlava con lui, era interessato a capirlo. E io mi sentii così toccata da quello scambio senza capirne nemmeno il motivo, ma ne uscii con la convinzione che quello era il modo in cui avrei voluto lavorare. Quello era il modo in cui avrei voluto ascoltare ed esprimermi nel lavoro con i pazienti.
Il ricordo successivo è di quando giovane operatrice di un comunità del raggruppamento Redancia, partecipai per la prima volta ad una delle supervisioni condotta dal prof. Carmelo Conforto: arrivai in un luogo che sembrava staccato da tutto il resto, dove anche i suoni erano cambiati da quelli che avevo udito un attimo prima. E la stanza, se pur piccola, riusciva a contenere tantissime persone, più di quanto potessi immaginare e per la prima volta mi trovai a confrontarmi con la complessità e l’articolazione del gruppo di cui facevo parte. Dopo la presentazione di una situazione clinica di un paziente da parte dei colleghi, veniva chiesto a tutti i presenti di portare il proprio contributo. Qualunque fosse: una suggestione, un pensiero, un’idea, un’emozione che era scaturita dal racconto. C’erano molte, tante voci e nessuna prevaleva sull’altra. E il prof. Conforto si limitava a fare domande che portavano però con sé significati, possibilità, pensieri. E mi trovavo a riflettere, con gli altri. E in quella condivisione si iniziavano a rappresentare scene di interazioni, possibili scambi di quel paziente, di noi con lui. E quello che all’inizio era sfuocato iniziava a prendere forma. Quel modo di procedere, mi toccò. Mi fece pensare all’importanza di non cercare necessariamente risposte, ma alla grande opportunità e ricchezza del farsi domande, di pensare e di farlo con gli altri.
Anni dopo, una nuova epifania. Il Dr. Andrea Narracci era stato invitato dal dr. Giovanni Giusto a tenere un incontro di formazione sulla Psicoanalisi Multifamiliare per il nostro gruppo, Redancia. Altro luogo, ma come il precedente in grado di ospitarci e di accoglierci tutti. Era la prima volta che ne sentivo parlare, non avevo mai partecipato ad un gruppo di psicoanalisi multifamiliare e mi trovai, come gli altri, a vedere dei filmati in cui potevamo avere l’esperienza di cosa fosse un gruppo. Ricordo l’umanità, il rispetto e l’attenzione alle parole. E ritrovai, come nei ricordi precedenti, quell’atteggiamento di interesse all’altro, autentico, in una situazione in cui non era chiaro chi fosse il paziente e chi non lo fosse. Non importava. Di nuovo sentii che qualcosa risuonò dentro di me, non aveva forma, ma non potevo non ascoltarlo. Per questo decisi di occuparmi insieme ai miei colleghi di Psicoanalisi Multifamiliare. E da quel momento il Dr. Narracci, divenne semplicemente Andrea.
Leggere il suo libro in questi giorni mi ha fatto vivere quello che ho provato in questi anni di partecipazione ai gruppi: ho ritrovato le voci di colleghi, di familiari, racconti di interazioni che hanno dato vita dentro di me a rappresentazioni di scambi di famiglie incontrate, anche della mia. Anni in cui ogni volta che si cominciava un gruppo, c’era l’emozione e la consapevolezza che al termine qualcosa dentro di noi sarebbe cambiato, che avremmo imparato qualcosa. Nel capitolo intitolato: “GPMF e i suoi riflessi sulle istituzioni psichiatriche e sulla loro organizzazioni” ritrovo tutto questo nel passaggio scritto dai colleghi Antonucci e Zuppi insieme ad Andrea: il GPMF è uno strumento fortemente attivante. Chi partecipa al gruppo entra in contatto con il mondo dello psicotico, può sentire e pensare come il paziente e dubitare della propria sanità mentale. Si attivano nella sua mente rappresentazioni di traumi lontani, dolori nascosti, ricordi rimossi: nello stesso tempo si mettono insieme pezzi scomposti, si abbozzano pensieri e ricostruzioni, si tentano connessioni. Il coinvolgimento è grande, ci si immedesima, si prova paura di non farcela, di essere travolti, di essere attratti dentro. Per entrare nel GPMF è necessario rinunciare a ricorrere a quanto già conosciuto per vestire i panni dell’esploratore che vuole conoscere, “andiamo ad imparare” diceva Badaracco. Gli strumenti per non perdersi, per navigare e orientarsi, vengono offerti dallo stesso gruppo che si attiva nella forma della “mente ampliada”.
La paura di non farcela, il timore di essere travolti da tutta quella sofferenza ci accompagnava all’inizio, ma ancora oggi accade. Ci salva la consapevolezza che nessuno di noi avrà la responsabilità di quello accade, perché quella è di tutti. È il gruppo stesso ad orientare, contenere in un funzionamento che non si fonda sulle diverse individualità, ma sulla collettività.
Il titolo rappresenta un percorso: da oggetto di intervento a soggetto della propria trasformazione.
E lo spiegano bene nella loro introduzione Antonella Cammarota e Marialuisa Rainer, in principio soltanto madri di due figli sofferenti e dopo l’incontro con la PM anche donne, mogli, figlie loro stesse con una storia di sofferenza e dolore che inconsapevolmente hanno “messo sulle spalle” dei loro figli. Marialuisa ricorda e io stessa con lei uno di quegli abbracci liberatori, dopo diversi mesi al gruppo, dopo che era più chiaro quale fosse il dolore e di chi fosse. In quell’abbraccio c’era la sofferenza di due persone, distinte.
Lo continua la collega Tardugno, nel capitolo intitolato Via d’uscita dalla psicosi: un altro itinerario. Badaracco, fondatore della PM, dopo anni di lavoro con i pazienti gravi, si convinse che la psicosi fosse un fenomeno che riguarda, fin dall’inizio, almeno due persone direttamente coinvolte, un figlio e un genitore più i genitori del genitore coinvolto nel legame simbiotico, cioè i nonni, seppur indirettamente. La sua ipotesi si fonda sulla considerazione che il genitore o i genitori non abbiano elaborato lutti o traumi a cui sono stati sottoposti durante la loro crescita e che ciò li abbia resi non in grado di tollerare il riconoscimento del figlio come altro da sé, e perciò, questi ultimi, impossibilitati ad una vita propria. La mancata esperienza elaborativa di lutti o traumi li ha resi “vulnerabili” all’instaurazione di una relazione nella quale i confini del Sé, fra il genitore e il figlio, sono difficili da differenziare con chiarezza, il che non può non avere effetti devastanti, a lungo andare, sul senso di Sé del figlio, in particolare, ma anche del genitore. Quando al momento della crisi, improvvisamente, il futuro paziente intuisce e riesce ad intravedere che ci può essere un modo di interpretare la vita più vicino al proprio modo di essere, fino ad allora poco o per niente conosciuto, corre il rischio di dissociarsi, di non sapere più chi è veramente. Il futuro paziente non era riuscito a vivere un vero e proprio processo di identificazione, aveva viceversa assunto una pseudo-identità, all’interno di un rapporto di interdipendenza patologica e patogena con il genitore simbiotico. Pertanto egli sta male da sempre e la crisi psicotica può essere vista allora come un tentativo disperato di rompere l’involucro nel quale è stato costretto o è stato capace di vivere.
Tuto questo comporta un’idea della crisi psicotica che non soltanto porta con sé elementi di malattia, ma anche di salute e per questo è importante comprenderne il senso.
Un senso che però implica il necessario passaggio per cui la psicosi non riguarda più soltanto una persona. Nella mia esperienza approdare al Gruppo Multifamiliare significa necessariamente entrare in contatto con questo nuovo modo di guardare alla malattia mentale: che significa necessariamente, smettere di guardare all’altro come oggetto della cura ma ripensarsi come soggetto che contribuisce alla costruzione di quel significato.
Il Gruppo di Psicoanalisi Multifamiliare offre questa opportunità: invitando a partecipare più nuclei familiari, compresi i pazienti e gli operatori dei servizi, invitando i partecipanti a parlare di sé e non dell’altro, immediatamente ti senti posizionato in maniera diversa. Ti viene chiesto di entrare in contatto con la tua storia, di sofferenza fino a quel momento dissociata o negata. Un accesso che diventa possibile anche dall’ascolto delle storie degli altri (rispecchiamento metaforico). Ti chiede di guardare con onestà a quello che è stato. Di essere disponibile a soffrire quello che non è mai stato possibile. Per liberare e liberarsi.
Scorrendo le pagine del libro, mi vengono in mente gli sguardi di molti familiari a cui viene chiesto di parlare di loro e non dell’altro, penso ai loro occhi inizialmente smarriti, in cerca di solidarietà nei visi degli altri familiari. E penso alla difficoltà di tollerare quel senso di colpa che immediatamente li invade. E alla scoperta mia e dei colleghi che condividono con me questo percorso, di qualcosa di nuovo, nella relazione con quella persona, che lo rende più umano, che lo rende più avvicinabile. Che te lo fa sentire più vicino.
Nello spazio dell’Ateneo, con i colleghi, ci siamo spesso trovati a condividere questo cambiamento: la percezione di qualcosa che fino a quel momento non era possibile contattare di quella persona, quella sofferenza che ti permette di avvicinarti, di avere uno sguardo diverso. Di vedere delle potenzialità a vantaggio della cura.
Nel capitolo Stile di lavoro inclusivo ho trovato ciò negli anni è diventato l’impegno del gruppo di cui faccio parte: promuovere il GPMF non soltanto come dispositivo di intervento da considerarsi all’interno di ogni singola realtà, ma come possibilità di diffondere una cultura della malattia mentale e della sua cura diversa ovvero come scrivono Giovanni Giusto e Andrea Narracci secondo una logica caratterizzata dalla presa in considerazione che i pazienti psichiatrici gravi hanno bisogno di vivere rapporti terapeutici che siano in grado di modificare il modo stereotipato in cui ognuno di loro sa stare in relazione con l’altro. E tutto questo necessariamente passa dall’entrare in contatto con la sofferenza ripensandola non soltanto come cosa dell’altro, ma che ci appartiene, che ci riguarda; dalla capacità di assumere una posizione di osservatori neutrali non giudicanti. E soprattutto dalla disponibilità, nella partecipazione ad un GPMF, di spogliarci, almeno per il tempo del gruppo, del proprio ruolo di “colui che sa”.
In tutti e tre i ricordi da cui sono partita, ritrovo questa disponibilità all’ascolto, alla condivisione e credo ora, in après-coup, che quei momenti abbiano costituito i presupposti per farmi avvicinare, comprendere e apprezzare profondamente l’esperienza che, insieme ai miei colleghi, vivo ogni volta che ci troviamo ad iniziare un gruppo di psicoanalisi multifamiliare.
Complimenti, è un discorso che va al di là del contesto psichiatrico e psicoterapico in senso stretto. Ho appena letto un libro di qualche decennio fa, di Thomas Bernhard. Ci parla, in un intreccio di metafore e simboli, della necessità di non porci come un “occhio di Dio”, che osserva e giudica dall’alto e dall’esterno, ma come una sorta di “pietra di paragone” (quella usata per valutare l’oro) che riconosce la preziosità di ciò che vuol capire, confrontandosi e lasciandosi contaminare, ma mantenendo la propria dovuta funzione.