La posizione “libertaria” propugnata dalla “Legge Basaglia” oggi può sembrare forse alquanto inadeguata anche ai suoi più fedeli e appassionati sostenitori. Niente di male.
Sono diversi i tempi e i luoghi, persino le persone cammin facendo hanno sviluppato sensibilità diverse nei confronti del problema della “salute mentale”.
Qualcuno ancora oggi parla della Legge Basaglia come di un’ “utopia” perché forse e nonostante l’afflato sociale e solidaristico che ne era il motore non teneva paradossalmente abbastanza in considerazione – l’imperfezione implicita nel lato umano delle cose – (e delle istituzioni regionali eventualmente) e le attività di collaborazione e cooperazione a cui pure si appellava.
Ossia, forse, proprio in conseguenza di questa sua vocazione “ideale” e “rivoluzionaria”, trascurava la necessità dell’ “importanza simbolica di un interesse politico ufficiale” per determinati problemi (e non certo per responsabilità di Basaglia).
È vero che le “rivoluzioni nascono dal basso” (e in tal caso dal coraggio intellettuale e morale di un “marziano” dal nome Basaglia in cima a tutti) ma poi le rivoluzioni devono essere sancite da una legislazione appropriata, consacrate da una sensibilità più diffusa e infine legittimate dall’attenzione politica delle più alte sfere della responsabilità pubblica che trasforma gli ideali in concreti atti di “governo” quotidiano. La società o meglio le sue istituzioni e i suoi governanti parlano o pretendono di farlo a nome nostro o di alcune categorie di elettori più precisamente.
E quando le istituzioni tacciono totalmente? Allora quel silenzio parlerebbe per noi? Uno potrebbe sempre dire “io parlo soltanto per me stesso”, ma l’espediente potrebbe apparire velleitario dal momento che siamo animali sociali per definizione e “nasciamo in un bagno di linguaggio”, pure.
Ad esempio nella bozza di programma del futuro governo “giallo-verde” si spacciano per atti rivoluzionari la flat-tax e l’espulsione di qualche centinaio di immigrati senza permesso di soggiorno. Io sinceramente mi sarei aspettato un cenno bello grosso anche alla questione della riorganizzazione dei Servizi di salute mentale sul territorio.
In verità me lo aspetto da qualche governo a questa parte. Si vede che attualmente non è un obiettivo primario dei nostri governanti centrali quello della salute mentale pubblica. Voglio dire: quand’è che le nostre massime autorità di governo hanno cominciato a perdere interesse per la questione della salute psicologica dei loro cittadini?
È come se qualcuno si fosse illuso che all’indomani dell’approvazione della legge Basaglia (la cui approvazione sancì comunque un rinnovato e più attento “interesse politico” per la questione) e dato sfogo alle “illusioni” del suo massimo pensatore e quietata la coscienza collettiva, anche, si fossero risolti tutti i guai riguardanti la “salute mentale della nazione”. Meglio, sono convinto che il problema per certe autorità non sussiste proprio e forse non lo conoscono nemmeno il problema. Roba per dibattiti giornalistici e televisivi e pseudosociologici eventualmente.
Pensiamoci bene! Quali sono oggi, ma da 40 anni a questa parte almeno, i valori in competizione tra loro sostenuti nella sfera politica nostrana? Uhm! Vediamo: Individualità, potenza nazionale, import-export? Le proposte di nuovi audaci obiettivi si limitano all’auto senza pilota (metafora dell’attuale funzionamento della sanità in materia di “salute mentale”?) e alla irresponsabile campagna contro le vaccinazioni obbligatorie.
Poi ci sono la salvaguardia dei confini, le lotte commerciali più o meno striscianti, e eventualmente la riconversione del PD (partito democratico italiano sempre in cerca di un’anima) E ancora lotta al terrorismo ecc. Certo anche lo spread non ci fa dormire sonni tranquilli.
E poi sarà il caso di rimanere nella zona euro? Ecc. Insomma, tutte cose degnissime di attenzione, si capisce, insieme a tante altre fonte di preoccupazione collettiva, temi capaci di mobilitare l’opinione pubblica e i suoi rappresentanti eletti (non sempre eletti, in verità)Voglio dire che mancando “l’interesse politico ufficiale”, almeno secondo la mia percezione, la questione capitale della sofferenza mentale o psichica (la scelta del termine dipende dall’epistemologia di riferimento di ciascuno, verosimilmente) rischia pericolosamente di essere “relegata” in certo immaginario collettivo a questione meramente “umanitaria” se non propriamente e unicamente “medicalistica” ancora una volta (purtroppo l’approccio alla sofferenza psichica continua ad oscillare, secondo me, pericolosamente tra questi due estremi, tendenzialmente).
È di pochi giorni fa la pubblicazione dell’elenco provvisorio relativo al 5 per mille 2018 dove risulta che sono circa “60mila gli enti candidati, di cui l’80% riconducibile all’ambito del volontariato e il restante 20% costituito da associazioni sportive dilettantistiche riconosciute ai Fini sportivi dal Coni.
E lo dico con tutto il dovuto rispetto per il volontariato e che sia sempre benedetto perché supplisce tante volte all’assenza dell’intervento delle autorità e delle strutture ufficiali competenti in certa materia. Certo, la questione della salute mentale non può essere lasciata unicamente allo strumento benemerito del 5 per mille si spera e nemmeno soltanto ai coraggiosi “visionari” che si oppongono localmente a certo andazzo nazionale, per così dire.
Anche perché questo modo “riduttivo” di affrontare la questione tace tante volte il fermento quotidiano che agita il lavoro, la professionalità e i pensieri di tutti coloro che per mestiere e per vocazione non si limitano a timbrare il cartellino, ma si confrontano (un confronto anche interiore) con i problemi quotidiani che si rivelano nel rapporto con i sofferenti di problematiche psichiche e/o mentali. E la discussione su questa piattaforma tra le altre ne è una testimonianza (del lavorio mentale che comporta il confronto con le difficoltà presentate dalla questione, voglio dire).
Cito la notizia soltanto per far rilevare certa tendenza, non per criticare l’impegno e la creatività dei singoli e delle associazioni varie che gravitano intorno alla presa in carico della “sofferenza mentale”, ribadisco.Come è a tutti noto il pensiero e l’azione di Basaglia seppure non propriamente accolti nella legge che prende il suo nome erano sacrosantemente orientati a migliorare materialmente e moralmente la vita umana e la convivenza nella società della persona affetta da sofferenza psichica. “Aprire” i manicomi, anzi cancellarli, perché i “manicomi non si riformano, ma si distruggono” rappresentò all’inizio una vera e propria provocazione, un pugno al basso ventre per i perbenisti anche “psi” di tutte le categorie e ceti sociali.
Ovviamente dopo la provocazione e la libertà vengono le responsabilità. Quello della legge Basaglia si è rivelato un lungo cammino discretamente accidentato di cui ancora si fa fatica a vedere il traguardo (ma era prevedibile, forse, viste le implicazioni morali, finanche antropologiche oltre che più strettamente mediche e psicologiche che comporta tante volte la “malattia mentale”). La sua fu, secondo me, soprattutto una vera “rivoluzione mentale” volta a combattere prima di tutto l’insana idea stessa di “manicomio” che ciascuno di noi si porta dentro più o meno stabilmente in testa.
A dispetto del “pragmatismo” necessario allo sviluppo di un sano senso di realtà, ma in nome del quale spesso si giustificano nefandezze inaudite, mi giova ripararmi ancora presso il confortevole e rassicurante cantuccio dell’idealità: quella del nostro lavoro in particolare, e forse il ricorso all’ “ideale” mi aiuta ad allargare i termini della questione. L’ “ideale” spero non sia soltanto un comodo escamotage per evitare forse la tentazione di chiudersi nel proprio recinto ideologico e professionale, tuttavia può tornare utile per sfuggire al rischio che la “salute mentale” si riduca a questione meramente tecnica tra addetti ai lavori e le famiglie dei pazienti, quando va bene, quando presenti.
E allora è bello e terribile il lavoro del “curante”. A questi spetta manifestare ufficialmente e secondo scienza e coscienza la sua solidarietà umana, ma questo lo fa dovendo in qualche modo trascurare in certa misura il “diritto degli individui a vivere tranquillamente senza interferenze esterne”.
Il dilemma in cui si strugge tante volte il curante che si occupa della sofferenza psicologica delle persone è come “intromettersi nell’autonomia individuale con discrezione e senza che ciò connoti una mancanza di rispetto nei confronti dell’individuo o una sua indebita manipolazione”.
Il rischio che ci si possa ergere a “giudici” e arbitri della vita e del futuro altrui seppure involontariamente in questo campo della sanità pubblica è sempre incombente. Tuttavia, può sembrare paradossale e un po’ lo è, forse, la nostra “invadenza-intrusione” è giustificata proprio dal nostro interesse per l’autonomia e la libertà individuali e soprattutto per la loro manifestazione (non sembri paternalistico).
Pensiamo infatti che attraverso una “misurata”, ma necessaria tante volte “ingerenza” nella vita altrui si possa dare valore ad autonomia e libertà in maniera sufficiente a permettere alle persone e nei limiti delle loro funzionalità di poter scegliere di fare certe cose o “ottenere certi beni” (chissà, perché no, anche), non solo attraverso l’ausilio farmacologico o gli strumenti psicoterapici a disposizione ma anche permettendo all’interno delle strutture riabilitative e nell’ambito di un percorso esistenziale più eterogeneo di svolgere attività “autoespressive” e “autosimboliche” semplici o più complesse, che in linea di principio siamo convinti possano aiutare le persone sofferenti a migliorare ulteriormente la propria persona ed esistenza. Preparatevi!
Dopo le “REMS” arrivano le “REMAP” (Residenze per l’ecologia mentale e l’autodeterminazione politica). Dunque, l’interesse per l’espressione e la simbolizzazione dei valori di autonomia e libertà ci guida fondamentalmente nell’azione “politica” e quotidiana della “cura” e riteniamo che simili valori possano essere espressi nel modo più efficace anche, attraverso un’azione congiunta e ufficiale (cioè accreditata dalle moderne acquisizioni in campo medico e psicologico) di un’equipe di lavoro e di Servizi le cui azioni integrate sono sostanzialmente “politiche” ancora e che procedono insieme con l’attenzione per l’autoespressione individuale.
In qualche modo favoriamo l’espressione simbolica di molti aspetti delle persone che abbiamo in carico senza obbligatoriamente dare priorità al lato personale, cioè senza accordargli necessariamente una preponderanza incondizionata (non per niente l’approccio alla sofferenza psichica è “gruppale”, tante volte).
Insomma, la nostra azione di curanti della salute mentale diventa un’azione collettiva dunque “politica” in quanto più o meno indirettamente finiamo per aver cura di un’ “autoespressione collettiva”, di fatto, forse. La nostra azione di cura è un’azione “politica” perché miriamo anche ad ottenere certi risultati e a cambiare le condizioni in meglio per quella data persona o gruppo di individui, e pensiamo che certe “linee politiche di cura” possano esprimere adeguatamente la nostra solidarietà agli altri sofferenti perché crediamo che servano ad aiutarli o sostenerli.
Quando accenno alla valenza sociale o politica della cura voglio dire che il curante o l’istituzione addetti alla cura della sofferenza psichica agiscono pur sempre all’insegna della salvaguardia della persona umana del paziente (e del paziente/reo) di fronte al – rischio di una sua indebita strumentalizzazione per la realizzazione del “bene comune” -. Il punto è oltremodo “politico” perché stiamo parlando del – grado e del tasso di senso di solidarietà e interesse per gli altri di una popolazione, e del suo bisogno di dargli un’espressione politica simbolica -.
Perché la riorganizzazione dei Servizi di salute mentale parla soprattutto di questo, cioè di legami di solidarietà e interesse che vogliamo vedere solennemente rispettati e “scientificamente” formulati nella sfera politica collettiva.
Basaglia questo fece con la sua “azione di forza” (la forza dei princìpi su cui notoriamente non si possono fare compromessi). Egli pose solennemente un problema dandogli un’espressione simbolica e “imponendolo” alla sfera politica collettiva. Succede poi che i programmi intrapresi in buona fede per conseguire gli obiettivi della legge abbiano funzionato bene in diversi casi, gli obiettivi che essi dovevano raggiungere hanno fatto notevoli progressi. Tuttavia, alcune progettualità non hanno funzionato a dovere; ci sono stati inconvenienti, effetti collaterali sgradevoli, inaspettate difficoltà nel loro raggiungimento, sviluppi inattesi, inadempienze, negligenze. Alcuni avranno, allora, la tentazione di aggrapparsi ancora con più vigore alla legge, sostenendo che la purezza dei suoi obiettivi ha perso forza perché i suoi promotori non li hanno perseguiti fino in fondo.
Quando si tratta di grandi orizzonti politici, perché di questo tratta la legge Basaglia, secondo me, si può dire che ci sarà chi reputa che soltanto attraverso rilevanti mutamenti «strutturali» nella società si possa continuare a perseguire certi obiettivi e chi penserà invece che sia già stato fatto abbastanza, cioè che la legge Basaglia in questo caso abbia espresso il suo massimo potenziale nell’attuale contesto socioecomico, politico e morale.
E poi non si possono nemmeno sottovalutare le resistenze interne di alcuni membri dell’ “apparato” (pubblico e privato o misto) che avranno investito la propria carriera in certi obiettivi e programmi e si sperticano nel tentativo di mantenere alto il favore del “pubblico” per tali programmi che sono anche fonte di legittimo profitto – il loro «curriculum» e le loro carriere sono subordinate anche a questo, a conti fatti.
Diventa poi oggettivamente difficile anche continuare a prefiggersi certi obiettivi con mezzi molto diversi, cessando o convertendo drasticamente i programmi in corso d’opera (con quali mezzi, poi?)Ma il guaio più grosso è forse che col passare degli anni con questo tipo di organizzazione territoriale dei Servizi attuale abbiamo finito per – “istituzionalizzare” permanentemente il contenuto stesso di quei princìpi basagliani troppo solenni, troppo sacri, forse, e per questo forse tante volte troppo malamente articolati nei programmi molto “pragmatici” che alla legge Basaglia si ispirarono -. Ciò che voglio dire è che la dimensione simbolica non si può cancellare, essa lavora comunque e toglierla agli uomini e alle loro attività significa svuotare la loro progettualità invitarli a raccogliersi nel recinto ristretto del loro individualismo e avidità e dove predominano le smanie di successo. E quando si rinuncia agli orizzonti simbolici perché ritenuti ideologici, ad esempio e quindi da cancellare non porta tanto bene né alle persone, né alle democrazie (sarà per questo che nelle scuole si finisce tante volte per rinunciare a studiare la “Resistenza”?).
E sia chiaro che non sto perorando un’ideale supremazia del simbolo sulla conoscenza scientifica. Dico soltanto che i principi difficilmente possono essere interpretati attraverso i metodi descrittivi della scienza, o quelli più “stocastici” dell’economia, temo.
La legge Basaglia forse ha svolto degnamente le sue funzioni per il tempo e il contesto in cui è nata. Adesso è necessaria una nuova riforma sempre ispirata ovviamente ai principi basilari perorati da Basaglia. I suoi valori rimarranno ormai scolpiti per sempre nella coscienza di chiunque “psi” o no voglia dirsi veramente civile. Ma ora occorre una nuova legge che ne corregga le storture e declini quei valori effettivamente e più compiutamente nel lavoro quotidiano dei curanti da proporre in parlamento e con tutto il clamore del caso eventualmente che l’accompagni.
Occorre un’azione collettiva (clamorosa?) che rappresenti l’ennesimo cazzotto sullo stomaco per tutti i benpensanti di turno. Bisogna ridare una sveglia a certa coscienza politica e civica ormai sopita da troppo tempo. E allora usciamo dalle Comunità e dai Dsm e Spdc e dalle Rems assortiti e insieme gridiamo a gran voce che questo sistema non lo accetteremo più. In cambio offriamo programmi possibili e riforme plausibili che rimettano al centro della discussione le persone sofferenti e forse anche il contesto sociale in cui vivono, ma in modo più “strutturale”, questa volta. Allora, forse, non serve più che siano i pazienti ad uscire dall’istituzione.
Ma siano le “maestranze” a venir fuori. Questa è la seconda rivoluzione che già Basaglia e la sua legge preconizzavano, in seconda battuta, almeno, o la loro logica prosecuzione. Chissà! Ragazzi fuori, dunque! Liberiamo gli operatori!
– Non dobbiamo conquistare il mondo né tanto meno siamo qui per psichiatrizzarlo o psicologizzarlo. Ma c’è tanto di quel disagio da intercettare là fuori. Portiamoci al largo, orsù! Non potrete riposare per un po’ di tempo, ma dobbiamo avere il coraggio di andare oltre, laddove gli altri non vogliono avventurarsi.E non torneremo in porto senza una singola idea buona perché sarebbe uno sbaglio e un sacrilegio e oltretutto sconveniente e oltremodo ripugnante per dei veri uomini e donne di scienza. Sappiamo bene cosa sa da fare. E poi cosa direbbero le nostre famiglie e gli afflitti che aspettano delle soluzioni? Tutti noi faremmo meglio a sfruttare tutte le ore che il destino vorrà per accordarci e riempire questa nave di progetti affidabili entro l’anno possibilmente. – Quando finalmente troveremo noi stessi! — Coraggio allora… Salva a picco l’ancora…, su il controfiocco…, gabbieri pronti…, Sig Mason al timone…, vele a segno…, pronti con la randa…, vele di gabbia e parrocchetti…, timoniere poggiare al vento…, mollare i gerli…, aprire le vele…, sveglia marinai che si fa notte…, bracci a segno…, e vai con le vele di prua…, forza con quell’argano dannazione… Datevi una mossa uomini o questo sarà il vostro passaggio finale dritto per l’inferno…Cazzare la randa…, strozza quella fottuta scotta. Facciamo vela maledizione! Ancora una volta! -.
Suggestioni bibliografiche: “Moby Dick”.