Vaso di Pandora

Effetto spettatore, la psicologia dietro l’inazione di gruppo

L’effetto spettatore, noto anche con il suo nome inglese di bystander effect, avviene tutte le volte che si verifica una situazione di emergenza, ma nessuno dei presenti interviene. Il profano potrebbe dare la colpa al panico o alla paura. In realtà, vi sono basi psicologiche e sociologiche alla radice, ampiamente testate nel corso degli anni.

La psicologia è particolarmente incuriosita da questa reazione di inazione di gruppo che, tra l’altro, avviene con maggior frequenza all’aumentare del numero degli spettatori che assistono all’episodio. In effetti, la presenza di altre persone è indipensabile perché l’effetto testimone si verifichi. Studi e ricerche hanno dimostrato che l’apatia dello spettatore è direttamente connessa al numero di persone presenti. Sarebbe proprio la compartecipazione di altri, infatti, a paralizzarci e a inibirci. Ciò si deve, probabilmente, alla pigrizia dell’encefalo che reagisce in maniera lassista a una scena pericolosa, mettendo velocemente in pratica un ragionamento del genere: guarda in quanti siamo… Qualcuno dei presenti farà sicuramente qualcosa per aiutare quel poveretto!

Primi studi relativi all’effetto spettatore

effetto spettatore: una testimone su una scena del crimine
L’effetto spettatore ci paralizza di fronte a una situazione di emergenza

Le prime osservazioni sul fenomeno risalgono agli anni ’60. C’è una data particolarmente indicativa: il 1964. In quell’anno, a New York, si consumò un efferato delitto: Catherine Genovese, nota come Kitty, venne stuprata e assassinata, a pugnalate, vicino a casa sua. Durante la sua agonia, durata lunghi secondi dal momento che, come sappiamo, le coltellate difficilmente portano alla morte sul colpo, la donna urlò a squarciagola, finché ebbe fiato in corpo. Numerosi vicini (il cui numero è incerto) assistettero all’intera scena, richiamati dalle grida, eppure nessuno intervenne. Tutti restarono nelle loro case, o lungo la strada, ad assistere, immobili e apparentemente disinteressati. La stampa dell’epoca diede risalto a questo aspetto, che risultò fin da subito quantomeno curioso: com’è possibile che nessuno presti alcun soccorso a una donna che sta chiaramente morendo di fronte ai suoi occhi?

Se almeno una parte degli spettatori che videro la scena fosse intervenuta, invece di restare impalata, probabilmente Genovese si sarebbe salvata. Per quanto armato di coltello, infatti, l’assalitore, che era un solo uomo, se la sarebbe sicuramente data a gambe se avesse visto un cospicuo numero di persone attivarsi per fermarlo.

A onor del vero, il triste episodio di Kitty Genovese fu soltanto una conferma per la disciplina. Già nel corso degli anni ’50, infatti, lo psicologo Solomon Asch aveva studiato la possibilità che, in presenza di altri, le percezioni di una persona su quanto la circonda potessero modificarsi. Il caso di cronaca incuriosì i professionisti della mente. Dal ’64 in avanti, molti si interessarono all’omicidio, documentandosi su quanto era successo fin nei più piccoli dettagli. Il mancato aiuto alla donna fu un caso isolato o era possibile documentare uno schema di comportamento ben specifico nella (non) reazione dei presenti?

Test ed esperimenti in laboratorio

I primi due psicologi che testarono in laboratorio questo effetto furono John Darley e Bibb Latané nel 1968. A questi due dobbiamo la denominazione di effetto spettatore perché furono proprio loro ad accorgersi che, in effetti, esistono rischi di questo tipo. Prima della nuova denominazione, ci si riferiva al fenomeno con il nome di Genovese effect. Per studiare l’effetto, ricrearono una situazione molto simile a quella vissuta dalla povera Kitty Genovese. Affinarono poi la loro ricerca ricreando ad hoc alcune verosimili situazioni di emergenza, anche ingannando gli ignari partecipanti ai loro test.

I loro risultati parlano chiaro. Nel 70% dei casi, una persona che assiste, da sola, a un omicidio, si attiva e interviene. Talvolta lo fa aggredendo fisicamente l’assassino, in altri casi cerca di spaventarlo urlando e richiamando l’attenzione di altri, in altri ancora cerca un telefono per avvertire le Forze dell’Ordine (nel ’68, non c’erano i cellulari). Quando però ci si trova in gruppo e si assiste alla stessa identica dinamica, solo il 40% degli spettatori interviene.

In realtà, la casistica è un pò più complessa. Darley e Latanè osservarono infatti che entrano in gioco anche altri fattori. È più difficile intervenire se la minaccia riscontrata implica un verosimile danno a sé stessi; se il tipo di reazione richiesto è complesso; se l’emergenza è insolita, o rara, è non è ben chiaro come sia meglio gestirla; se la reazione debba essere immediata o, ancora, se le conseguenze dell’intervento siano imprevedibili. In seguito a tutte queste considerazioni, che il cervello porta a termine nel giro di una frazione di secondo, il soggetto percepirà un certo grado di responsabilità. Più basso sarà questo valore, meno probabile sarà un suo intervento. L’individuo, infatti, sentirà che non sia in suo dovere agire.

Gradi di responsabilità

Darley, Latanè e i professionisti che hanno continuato i loro studi hanno individuato tre gradi di responsabilità che ci spingono ad agire o a disinteressarci di una situazione di emergenza. Questi si basano sul rapporto tra vittima e spettatore:

  • la vittima è meritevole di aiuto?
  • Lo spettatore è in grado di aiutare?
  • Esiste un collegamento tra vittima e spettatore? Quanto è forte?

Sulla base delle risposte a queste tre domande, chi assiste alla scena prenderà la sua decisione sul da farsi e, di conseguenza, potrebbe sancire il destino della vittima. Dieci anni dopo l’omicidio di Genovese, all’interno dell’edificio prospiciente quella scena del crimine, la venticinquenne Sandra Zahler fu percossa a morte in una situazione terribilmente simile a quella del 1964. Anche in questo caso, la ragazza urlò a pieni polmoni. Anche in questo caso, nessuno ostacolò l’aggressore.

Leggi anche: “I disturbi somatoformi: sintomi e trattamenti

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