Vaso di Pandora

LA PAROLA SOSPESA…

LA PAROLA SOSPESA…

di Giovanni Folco

 

L’intervento nasce da una breve riflessione sulla parola.
Le cure psichiatriche attribuiscono una funzione di grande rilievo alla parola; ovviamente, non soltanto ad essa, il ricorso ai farmaci è non soltanto usuale, ma necessario. Nella direzione della parola e della sua funzione, vanno interpretate anche le molteplici attività, che hanno il loro momento decisivo nella concretezza della comunicazione che mediante essa si istituisce.
La comunicazione all’interno della terapia ha come termini essenziali e principali il paziente e l’équipe curante. Altri soggetti possono ovviamente intervenire, e di fatto intervengono, ma quasi a costituire l’ambiente e l’atmosfera della cura.

Questa pluralità di soggetti sono la risposta ad una esigenza rilevante della terapia, che è quella di non delimitare in maniera escludente la possibile varietà degli apporti.
La funzione della parola è ovviamente in prima istanza la comunicazione di carattere intellettuale, ed esige perciò l’ascolto, l’interpretazione e la comprensione, che sono momenti fondamentali e complessi che, esigono per un buon successo particolari condizioni, metodi e strumenti.

Tuttavia la dimensione ancor più fondamentale della parola, particolarmente nell’orizzonte delle malattie psichiatriche, non è quella intellettuale, bensì quella affettiva ed emotiva: estremamente interessante è che Julia Kritesva in: “In principio era l’amore, Psicoanalisi e fede”, parli in proposito del gioco di transfert e controtransfert come di un rapporto erotico. Il parlare di transfert e controtransfert dice la direzione del dire e dell’ascoltare, del proporre e dell’accogliere che caratterizza la cura in psichiatria.

L’attenzione a queste dimensioni permette di responsabilizzare gli interlocutori rispetto alla duplice funzione del parlare dichiarando e dell’ascoltare comprendendo: un processo che acquista la sua natura specifica e la sua concretizzazione determinata nella quotidiana attività, ove si esperimenta la verità dell’affermazione secondo la quale: la parola ha un senso sulla lingua di chi la pronuncia, altro nell’orecchio di chi l’ascolta.

Tutto questo oggi è sommamente complicato dalle nuove forme e nuovi strumenti di comunicazione. Se nei nostri ambiti terapeutici riusciamo abbastanza agevolmente a rintracciare il senso di ciò che viene detto, molto più difficilmente riusciamo a comprendere altri contesti attraverso i quali avviene la comunicazione.

Questi discorsi hanno indubbiamente valenze teoretiche molto generali; ma forse per noi è maggiormente interessante fare emergere queste stesse problematiche all’interno dei percorsi terapeutici.
Che dire delle parole dei telefoni cellulari, per non parlare di internet: WhatsApp, Facebook, Twitter, YouTube e molto altro. Le parole sono appunto “parole sospese” in una nuvola di comunicazioni.
Numerosissime ricerche e pubblicazioni in tutto il mondo, da tempo, indicano le problematiche e le relative patologie di dipendenza legate ad internet, con lo slatentizzarsi di patologie psichiatriche anche gravi.
Senza dilatare il discorso a questa grande tematica, possiamo sinteticamente solo segnalare come dall’esperienza clinica, innumerevoli possono essere le implicanze relative all’uso o all’abuso di queste moderne tecnologie.
Le irrefrenabili telefonate di una madre ricevute al cellulare in un rapporto simbiotico, lo scambio ossessivo di messaggi con la fidanzata o il gruppo di amici su WathsApp, possono complicare notevolmente il percorso terapeutico. Ancora, le stesse chiamate al 118 per farsi ricoverare senza concordare nulla con i curanti, possono inficiare la relazione di cura, rendendo talvolta la percepita onnipotenza del paziente, impotenza dell’operatore.
Queste sono semplici esemplificazioni, che non vogliono in nessun modo esaurire una tematica vastissima ed assolutamente complessa, ciò non toglie la rilevanza del cambiamento avvenuto nella comunicazione e le sue ripercussioni, peraltro non sempre negative, per il “setting” della comunità e per la stessa relazione di cura.
Non possiamo e non vogliamo pensare l’alleanza con il paziente in un’unica ed esclusiva traiettoria terapeutica, ma è evidente che sempre di più la relazione con il gruppo dei curanti subisce maggiori e diversificate sollecitazioni emotive.

La parola è “sospesa” tra un tempo d’attesa, divenuto quasi inesistente ed uno spazio divenuto spesso virtuale. La sua velocità, la sua immediatezza e, per questo motivo il suo dirompente potenziale comunicativo, sono potenti amplificatori di quello che viene riconosciuto come il sintomo di un narcisismo dilagante e conseguentemente, della sensazione di onnipotenza non sempre facilmente arginabile.
Dice Zygmunt Bauman in ‘Modernità liquida’: “C’è tuttavia un tratto della vita moderna e della sua organizzazione che forse si distingue come la ‘differenza che fa la differenza’, l’attributo cruciale dal quale tutti gli altri conseguono. Tale attributo è il mutato rapporto tra spazio e tempo”.
Questi cambiamenti sono dunque epocali e sebbene evolvano in tutta la società, nel nostro ambito maggiormente possiamo riscontrarne l’acuirsi nella sintomatologia dei nostri pazienti.

 

 

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