Ricordo ancora la prima volta che ho visto un matto. Ero all’università e durante una esperienza pratica il professore ci ha portati nell’ex op di Collegno. Per me i matti avevano un accento piemontese: ricordo che Giovanni, portava sempre sugli occhi una maschera da sub, non la toglieva mai, lui che in manicomio c’era entrato a sei anni. Ricordo Luciana che dopo una fuga d’amore, ancora minorenne, aveva seguito il suo uomo lasciando alle spalle la sua famiglia per poi ritrovarsi anche lei in manicomio dopo la fine del suo breve matrimonio; quell’uomo, simpatizzante con le BR, l’aveva portata lì per una “crisi nervosa” e da lì lei ne è uscita solo dopo alcuni cicli di elettroshock. Ricordo, in quel momento decisi che quello sarebbe stato il mio lavoro. Ero solo ai primi anni dell’università ed ancora tanta strada, tanti studi, avrei dovuto fare prima di riincontrare i folli.
L’inizio del mio lavoro
Solo dopo, per me, i matti sono diventati un lavoro e alla guida del pulmino della comunità non posso che ricordare il gruppo itinerante del mercoledì. Lì seduto a fianco a me c’era Guido che faceva stare zitte le voci per poter rispondere alle mie domande, c’era Carmine che sentiva un latrato di cane che fuoriusciva dalle suole delle sue scarpe. Pulmino 6 posti ma quanto affollamento!
Ma anche da lì di tempo ne è passato. Sono ormai 25 anni. Altra comunità, stesso lavoro.
Mi sembra siano passate tante psichiatrie, oltre a tanti anni di una medesima cosa, di un lavoro che nasce come passione e che ritrovo ancora.
Sempre di Ultimi si tratta. Ora hanno nomi differenti parlano anche lingue differenti, si tagliano fanno uso di sostanze ma sempre di ultimi si tratta.
E noi? I cosiddetti sani? Mi è sempre sembrato più difficile pensare a me e ai miei colleghi. Troppo presi ad osservare gli altri e meno a disposti a pensare a noi. Anche questa è una difesa ed un’arma che la maggior parte di noi sa usare più o meno bene.
L’esperienza insegna
Qualche ruga consente di ritenere questo un lavoro importante, un lavoro denso di significati di domande e poche risposte. Una vita passata ad osservare anche il minimo cambiamento dove pare evidente una lotta tra due pericoli di segno opposto: lo spontaneismo e il tecnicismo. Lo spontaneismo anti-tecnico, antintellettuale che porta a vedere di risolvere i problemi con una generica combinazione di buon senso e di buon operare e il tecnicismo terapeutico, efficientista, psicologizzante che legge, interpreta e restituisce.
L’impegno del terapeuta è costantemente volto a prendere coscienza della propria collera. Là dove si struttura un quadro terapeutico di lavoro occorre prestare attenzione da una parte ai movimenti pericolosamente fusionali o sideralmente distanzianti. È qui che lo spazio per pensare deve essere preservato lasciando che vengano contenute le emozioni, i sentimenti di vuoto letti in un contesto relazionale.
Il nostro lavoro è e sarà influenzato in misura maggiore dalla curiosità, dal desiderio, dalla passione, dalla fantasia, dall’invenzione, dalla creatività, dall’improvvisazione.