di Emilia Vento
Il mio primo incontro con la psichiatria fu traumatico. Entrai in contatto con l’istituzione e non con la materia o con i medici, non con la malattia, ma con la reclusione. Chiunque sia abbastanza in là con gli anni deve aver memoria di un luogo detto “reparto speciale” presso l’ospedale S. Martino.
Ci capitai per caso, per errore, per superficialità, ma mi segnò e lo ricordo ancor ora con angoscia. Fui portata in ospedale per una specie di attacco di panico che mi colse per strada, avevo circa 20 anni. In pronto soccorso mi fecero una fiala di qualcosa (valium probabilmente) e decisero di dimettermi, ma controllando i miei dati si accorsero che ero minorenne e che fosse quindi necessaria la presa in carico di un adulto. Di adulti avevo solo mia madre che era fuori città, per cui, nell’attesa che tornasse mi parcheggiarono lì, nel reparto speciale. Ci rimasi circa tre giorni, tra i più brutti della mia vita. Era un corridoio agli estremi del quale c’ erano due porte sbarrate da un catenaccio. Lungo le pareti si aprivano le stanze, c’erano sbarre ovunque. I gabinetti erano a vista e il reparto era promiscuo, niente separava la zona maschile da quella femminile e a me pareva un carro bestiame lanciato in un folle corsa senza soste ed infinita. Attribuii la sua esistenza alla cieca volontà della politica di distruggere le menti pensanti, ma al di là di queste considerazioni prive di una solida base, mi resi conto sin da allora che entrando in contatto con il reparto le persone iniziavano a star peggio. Ho visto donne “normali” trasformarsi ed impazzire poche ore dopo l’ingresso, ho visto e vissuto l’abbandono lì dentro e l’idea della sconfitta impossessarsi di noi reclusi. È fondamentale tenere a mente che purtroppo esiste un esercizio brutale e dannoso della psichiatria, un esercizio pigro, privo di attenzione e altrettanto dannoso della medicina, bisogna ricordare che la deriva è possibile e non dimenticare che siamo persone e meritiamo rispetto, che abbiamo dignità. Questo dovrebbe essere alla base di un rapporto terapeutico.
Molti anni sono passati dalla quella mia sfortunata permanenza nel reparto speciale e posti così non esistono più (per lo meno sulla carta) ma per quanti anni siano trascorsi è molto recente l’attuazione di comportamenti atti a salvaguardare non il corpo di un malato, ma l’intera sua persona. Bisogna interrogarsi a lungo e spesso.
In quegli anni non stavo già bene, ma barcollando fra uno stato d’angoscia insostenibile e giorni relativamente quieti, riuscii a portare avanti alcuni progetti di vita: studiai, vinsi un concorso come insegnante elementare, frequentai l’università. Però sul piano delle relazioni interpersonali ero un disastro. Fu quando la vita mi mise di fronte ai compiti che mi ero data, quando fui assolutamente sola a decidere di me che quella falsa sensazione di conformità e quel precario equilibrio saltarono trascinandomi alla deriva e per salvarmi (credo tutti noi si faccia quanto di meglio possibile per se stessi) cercai un altro mondo che, allora mi parve, potesse darmi accoglienza e riparo. Naturalmente sbagliavo. Ma ho la profonda convinzione che feci tutto quel che feci, dall’infanzia in avanti, per non impazzire. I miei rifugi, le mie ossessioni e gli oppiacei furono scelte obbligate, furono l’unico strumento che ebbi per rimanere sulla strada della vita; fuori da quel tracciato, la follia o la morte.
Spero sia chiaro che non intendo deresponsabilizzarmi, ma solo dare un quadro quanto più possibile trasparente di cosa animasse me, di quale garbuglio e quale deserto fossero il palcoscenico sul quale recitavo la mia vita.
A quel punto il mio rapporto con la psichiatria che era stato contemplato e solo vagamente sbozzato nell’adolescenza, traumatico in seguito alla permanenza nel reparto speciale appena più adulta, divenne stretto e di primaria importanza. Stretto e fondamentale, ma non sincero e funzionale solo ad un preciso bisogno, senza un progetto, senza articolazioni.
I miei psichiatri! Ne ho avuti a bizzeffe, bravi, meno capaci, utili o no, a volte manipolati (riuscivo? non so,ma quello era il mio intento) attenti o frettolosi, convinti che qualcosa si potesse fare o increduli, ne ho conosciuto di tutti i generi, ma sempre, anche dalle relazioni peggiori, ho tratto qualcosa. Spesso speravo di giocare il terapeuta di turno, promettendo l’inverosimile pur di raggiungere il mio scopo. In tempi ormai lontani era certamente quello l’unico mio intento: avere farmaci, essere aiutata nell’arduo compito di essere “fatta, strafatta, fattissima”. Un tossicodipendente dal medico vuole qualcosa di specifico, non gli chiede di “guarire”, non gli interessa minimamente l’idea della guarigione, non pensa nemmeno di essere malato. Vuole farmaci, solo farmaci. Ricordo di aver vissuto quel periodo e di aver messo in atto strategie per ottenere ciò di cui avevo bisogno, ma non mi rendevo conto che il medico, disarmato, faceva l’unica cosa gli era possibile: riduceva la portata del danno, tentava di mantenermi in vita. Ora so che mettevano in atto una sorta di protezione e non posso che esser loro grata.
Ma allora ed anche precedentemente fui spesso ambivalente (in genere prima di diventare morfinomane, quando il mio atteggiamento tossicomanico era già profondamente radicato, ma usavo farmaci tipo le benzodiazepine e non ancora oppiacei). Ci sono stati periodi, ricordo, in cui ho tormentato gli psicologi chiedendo aiuto, ma dirottavo deliberatamente il mio comportamento e i miei pensieri altrove, non parlando di ciò che mi angosciava, ma di altro, non permettendo così a nessuno di aiutarmi concretamente, perché, altra cosa da non dimenticare è che necessario per usufruire dell’aiuto volersi aiutare.
Per formazione o per fede ho sempre ritenuto che la parola ed il suo uso nell’ascolto e nell’esercizio attivo fossero lo strumento principe dell’uomo, quindi le scienze che si servono di questi mezzi o che li studiano mi sono confacenti. Il tema della relazione e quello dei linguaggi sono per me oggetto di interesse di tipo speculativo, ma ancor più gli strumenti necessari nella ricerca del mio equilibrio a volte prossimo, altre lontano. Ho quindi sempre guardato con rispetto e, in certi casi, ammirazione chi sapeva amministrare il linguaggio, chi possedeva la capacità di ascolto, chi esercitava una professione volta alla cura della persona. La psichiatria si occupa di ciò e quindi, maturando, sono stata bendisposta nei suoi confronti ritenendola una scienza non esclusivamente medica, ma umana. Naturalmente non è sempre così, a volte sono i pazienti, come nel mio caso a non voler aiuto, in altri casi sono le circostanze, ma l’importante è non arrendersi.
Dopo lunghi anni d’uso divenni talmente disperata che mi aggrappai ad ogni possibile appiglio, e per un certo periodo fu l’SPDC il mio approdo. A volte mi facevo ricoverare per disintossicarmi, ma soprattutto arrivavo lì a tarda sera per trovare un letto, parole di conforto e rispetto. Il mio corpo e la mia mente gridavano: pausa. In un mondo che mi fuggiva e mi schifava, solo alcuni psichiatri mi trattavano da essere umano. So che la funzione degli SPDC non è certo quella di accogliere i senza tetto, però con me spesso è stato fatto. Ciò che è lo scopo principe della struttura ospedaliera si arricchì di altre potenzialità, e lì furono accolti altri bisogni, necessità non strettamente legate al concetto moderno concetto di cura, quanto piuttosto al suo più profondo e primo significato. In questo caso non vivevo l’ospedale come un carcere, ma come luogo protetto. In termini meno asettici era una sorta di abbraccio caldo e sicuro.
Nel tempo molte sono le esperienze di cui ho dimenticato l’esistenza: le crisi di rabbia e quelle di una profonda depressione, l’autolesionismo scientifico, il senso di morte, una abissale tristezza, il disprezzo che nutrivo nei miei confronti, l’odio per il mondo, le paure e la colpa mi hanno nutrito e depauperato per moltissimi anni, ma in genere non ho memoria della maggior parte di fatti specifici di quante e quali volte cioè ho danneggiato, distrutto, pianto, credo però di essere viva solo per caso, per una combinazione di fortunati eventi. Poi qualcosa è cambiato ed ho cominciato a risalire la china. Partivo da molto lontano e sapevo che da sola non avrei avuto chance per cui mi rivolsi in modo lucido e consapevole ai servizi territoriali. Non cercavo di mantenermi dipendente o di allontanare la morte per overdose, per denutrizione o per una banale disattenzione, ma cercavo chi potesse darmi sostegno nel perseguire l’ambizioso progetto di tornare al mondo.
Non più saltabeccare da uno psicologo e l’altro come ero solita fare un tempo, non più servirsi delle strutture per non “finire male”, ma costruire, cercare nell’intimo le proprie risorse e i propri limiti, analizzare e progettare, un passo alla volta, non sempre in avanti, un giorno dopo l’altro.
Sapere di star male ed accettarlo, sapere, credendoci, che non è colpa di nessuno e che ormai non avrebbe un gran valore accertare alcune responsabilità, partire dal “qui ed ora”, conoscersi per darsi misure e prospettive, affinare strumenti per meglio affrontare le difficoltà e i possibili fallimenti, sapersi anche arrendere in alcuni casi, sono i contenuti e le modalità che ho appreso in circa 15 anni di incontri settimanali con il mio psicologo. Ho anche una psichiatra che vedo circa una volta al mese e che mi piace, con la quale riesco anche a ridere (ma non è importante riuscire ad esprimere l’ironia?) e un’assistente sociale che crede in me. Sono inoltre in una associazione di cui faccio parte e che cerco di proteggere salvaguardare oltre ad essere da lei sostenuta.
È necessario essere attivi, sperimentare e promuovere il proprio sé per venir fuori da uno stato di dipendenza nel quale è facile rimanere impastoiati (sia questa da sostanze o da strutture o da persone). Partecipo a gruppi di auto aiuto privi di conduttori e o di tecnici, con persone con storie diverse dalla mia , ognuno ha la sua storia, ma con la stessa esperienza di dolore, sofferenza psicologica. Sono gruppi che mi/ci servono. Non sono facili. Non sono improvvisati. Non bisogna dimenticare che è necessario essere artefici del proprio divenire per vivere meglio.
Da cosa scaturisce questa mia riflessione? Perché questo racconto? Forse per ribadire che la psichiatria è un mezzo di grande portata, che ha bisogno di rinnovarsi continuamente e di porsi sempre nuove domande, che nella relazione tra il terapeuta ed il paziente è fondamentale che si instaurino fiducia reciproca e lo stesso intento, che non si deve perdere di vista che è la persona (più che il malato, molto più che il risultato) il fulcro stesso della scienza.
Si potrebbe anche dire che tra il terapeuta (persona) ed il paziente (persona) ci sia una vasta distesa di cose potenzialmente utili e che solo cercando insieme, liberamente, ciò che specificatamente è funzionale, è probabile ottenere dei risultati.
Ma è anche una testimonianza di speranza verso chi soffre .
E verso i terapeuti.