Sempre più di frequente si ricorre a questo neologismo, orrendo quanto i fatti ai quali si riferisce.
Dal punto di vista sociale e politico si tende a interpretare il fenomeno come tendenza maschile a non considerare le donne come individui indipendenti, con il diritto di autodeterminarsi, ma come cosa propria.
Dal punto di vista psicologico la prospettiva si arricchisce sino quasi a rovesciarsi.
Non possiamo considerare questi eventi a prescindere dalla qualità delle relazioni primarie e della struttura di personalità di chi li compie.
Si può supporre, infatti, che la perdita dell’oggetto d’amore dell’oggi corrisponda alla perdita del “sostituto affettivo” di un oggetto interno amato e odiato, la cui assenza, presenza non permette di sopravvivere.
La donna quindi può essere percepita non tanto come cosa propria, altro da sé, ma come parte di sé.
La nostra pratica clinica ci mette ogni giorno di fronte alle vicissitudini dei processi d’individuazione e di separazione.
Ritengo che questo percorso personale, che riguarda ogni essere umano, costituisca la più grande e continuativa sfida emotiva dell’esistenza.
L’atto stesso del venire al mondo sancisce la prima necessaria ed irrimediabile separazione, qualcosa che forse contribuisce al mito del paradiso perduto.
Di seguito, di fase in fase, passaggio per passaggio, gli individui debbono affrontare e trovare le risorse per innumerevoli altre separazioni, reali e simboliche.
Tollerare l’allentarsi dei legami di attaccamento, nelle loro diverse forme, attrezzarsi ad acquisire le conoscenze per una vita autonoma, lasciare la casa natale e i vincoli primari, divenire essi stessi oggetti di dipendenza per le generazioni successive.
Nella prospettiva religiosa sembra rispecchiarsi una profonda conoscenza che coglie le difficoltà di questo percorso.
I sacramenti, nella religione cattolica, corrispondono, infatti, ad altrettanti riti di passaggio che scandiscono le età della vita, col sostegno della benedizione divina e del riconoscimento sociale.
Offrono perciò la possibilità di drammatizzare e idealizzare, su di un palcoscenico collettivo, quanto di gioioso e al tempo stesso doloroso contraddistingue ogni svolta evolutiva della nostra esistenza.
Anche la morte, quindi, in questa prospettiva non è altro che una perdita transitoria, nell’attesa di un ricongiungimento ultraterreno.
La ricerca del piacere non avrebbe forse ragione di essere se non dovessimo continuamente confrontarci con il suo opposto: il dolore.
Non credo sia un caso che il linguaggio, comune e specialistico, tenda a evitare la parola dolore sostituendola con sinonimi edulcoranti.
Si parla quindi di disagio, di difficoltà, di sofferenza, di angoscia, di tristezza, di tormento, quando non si fa ricorso a categorie psicopatologiche e si preferisce utilizzare il termine dolore confinandolo alla sfera della percezione fisica, col presupposto che possa avere un più facile rimedio.
Ma ci sono dolori che non hanno rimedio se non nelle nostre risorse psichiche e ci sono individui che non hanno sufficienti risorse per porvi rimedio.
Credo quindi che, come le cronache ci riferiscono, nel fenomeno del femminicidio, ben attenti a comprendere e non perciò a giustificare, sia frequentemente implicato il dolore della separazione e della presenza e l’incapacità di tollerarlo.
La perdita di un oggetto di amore può essere così insopportabile da dovere essere negata sino al suo annullamento fisico.
La morte di chi si sente di non potere perdere né avere può quindi divenire, paradossalmente, l’unico folle rimedio a un dolore insostenibile che unisce per sempre entrambi i soggetti della relazione nell’annientamento sociale.
Ci si deve chiedere se ed eventualmente cosa, in questa nostra epoca, renda tanti individui così fragili e distruttivi rispetto a questi fenomeni senza tempo.