per tutti i pugni al muro
e quelli sul materasso,
per ogni taglio che ora curo,
per ogni partita a carte vinta con un asso,
per ogni secondo passato a parlarmi
e per tutte le volte che mi avete pensata
io non posso far altro che ringraziarvi
anche per non avermi abbandonata
ero nel buio più profondo
speravo fosse solo un brutto sogno
la verità è che dopo aver toccato il fondo
eravate voi ciò di cui più avevo bisogno…
per sempre, quella acida…
Questa una parte della lettera di saluto di un’ospite di Villa Danilo, una di quelle che lasciano il segno. Il suo percorso è durato due anni, e posso dire con certezza che è stato uno di quei percorsi in comunità minori che vale la pena ricordare nei giorni faticosi. È arrivata all’età di quindici anni e per circa un anno l’abbiamo rincorsa, mentalmente e fisicamente, l’angoscia che ci ha buttato dentro è stata tanta, abbiamo seriamente temuto di non farcela, noi con lei. Non riusciva a beneficiare del tempo insieme, le sue fughe erano costanti, così come i gesti autolesivi. La sua rigidità era tale da non permetterle di andare oltre, per lei ogni minimo problema o incomprensione portava a chiudere con una persona, anche per mesi.
Lo sa bene Guido, che ho visto faticare con lei come non mai. Guido che a causa di un lavoro di ceramica non riuscito è stato letteralmente ignorato per settimane, poi direi quasi provocato con un lavoro con su scritto “voglio morire”. Ma Guido, come noi, non ha mollato, ha aspettato ed è rimasto, ha tenuto quel lavoro, con il sorriso e la pazienza che lo contraddistinguono.
Lentamente, con il tempo, ha accorciato le distanze, ma soprattutto i tempi di chiusura, e ci ha permesso di camminare con lei nel percorso di comunità. Ha avuto bisogno di sbagliare, di piangere, di arrabbiarsi. Soprattutto di arrabbiarsi, e tanto, ma senza la sensazione di aver distrutto definitivamente il legame. In certi momenti particolarmente difficili, ha avuto bisogno che io mi arrabbiassi, che ci gridassimo addosso, per riuscire a fermarsi, a calmarsi, a respirare, a togliere il cappuccio della felpa e smettere di piangere.
Oggi quella ragazza che due anni fa aveva chiuso il padre fuori dalla sua vita (e fuori di casa) ha lasciato la comunità insieme a lui, con il sorriso e il cuore carico di affetto. Prima di andare, ha distrutto simbolicamente il VOGLIO MORIRE nel cortile della comunità, creando insieme a Guido un’altra opera riportante la scritta VIVERE.
Non lo so se ce la farà fuori, se riuscirà a finire la scuola e a vivere la sua vita in modo positivo. Ma pensando a come è arrivata e a come se ne va oggi so che ha una possibilità concreta di farcela ed è per questo che ne vale sempre e assolutamente la pena.
Bellissimo!
Questa è l’essenza della Comunità Terapeutica: fornire una possibilità alternativa di vita a chi ha, momentaneamente, perso la capacità di intravederla.
Mi sembra un requisito base da cui la cura non può prescindere.
Grazie a Marianna e a tutta la sua squadra di collaboratori