di Salvatore Inglese
[Tratto da “Il Vaso di Pandora” – Vol.XIX, n° 4, 2011].
UN ACCAMPAMENTO IN SCIZIA
Vorrei elaborare un ragionamento sulle matrici di sviluppo dell’etnopsichiatria con l’intenzione di disegnare le stanze di una possibile casa comune di questa disciplina o, almeno, di tracciare il perimetro di un territorio problematico che non sia più negletto o temuto sul piano scientifico perché abitato da barbari (Inglese, 2009).
Inviterei a spostarsi nei territori dell’etnopsichiatria come in una sorta di Scizia arcaica, dimensione geoculturale attraversata da una moltitudine di popoli e dove si realizza una sintesi antropologica originale – un nucleo denso e un crocevia affollato della civiltà indoeuropea (Dodds, 1997).
Erodoto (Storie) descrive la resistenza opposta da questa regione all’espansione dei Persiani ed espone allo sguardo greco una civilizzazione alternativa all’Ellade ma la cui esatta realtà appare comunque distorta dalle rappresentazioni leggendarie e mitografiche persistenti nelle pagine storiche ed etnografiche di questo antico studioso1.
Il discorso sull’etnopsichiatria può essere pronunciato in riferimento a problemi condivisi ma diversamente affrontati nel contesto dell’interconnessione dei mondi che condiziona lo Zeitgeist contemporaneo. Traduciamo Zeit come epoca, a sua volta etimologicamente tributaria della parola epoché.
EPOCA Vs EPOKÉ
Epoca: in Tolomeo, questo parametro astronomico definisce un momento del tempo rispetto al quale sono individuate le posizioni degli astri nello spazio e computati i loro movimenti (rapporto tra un tempo dato e uno spazio definito). Esso viene poi impiegato per istituire un secondo rapporto tra un momento temporale e un avvenimento che qualifica il carattere di un periodo storico (l’evento funge da marcatore di discontinuità della sequenza cronologica). L’evento dona (marca) una precisa fisionomia a una certa epoca e questa si lascia rappresentare dalla singolarità di quel fenomeno2. Jaspers (1965) definisce epoca assiale l’intervallo compreso tra l’VIII e il II sec. a.C., durante il quale irrompono fatti decisivi in vari punti del globo (Ellade: nascita della filosofia e apogeo della tragedia; Cina: sapienza di Lao Tse e Confucio; India: Upanishad e gesta del Buddha; Persia: Zarathustra; Palestina: profetismo ebraico). Durante questo periodo l’uomo diviene consapevole dell’Essere e di sé stesso, patendo la propria intrinseca debolezza e la temibilità del mondo, ponendosi domande fondamentali a cui risponde con il suo cammino verso un orizzonte di liberazione e riscatto. Il movimento coscienziale dell’epoca assiale lascia le sue stazioni di partenza e pone a confronto le conquiste concettuali che oltrepassano le barriere geopolitiche (Holenstein, 2009). L’epoca della globalizzazione offre adesso nuove occasioni a tali scambi culturali che scorrono entro dimensioni immateriali (reti elettroniche) o cavalcano le migrazioni di massa.
Epoché: nel senso metodologico di una sospensione del giudizio (scettici antichi) rispetto a un fenomeno contingente. Da qui la raccomandazione – non accettare né rifiutare, non affermare né negare – affinché la soluzione di un problema gnoseologico non vaneggi nel dogmatismo. Husserl (1965) intende l’epoché come contemplazione disinteressata, ovvero svincolata da ogni interesse naturale oppure psicologico per l’esistenza delle cose del mondo – questa messa tra parentesi vieta ogni giudizio sull’esistente spazio-temporale, soprattutto quello esercitato dalle scienze oggettive, al fine di ricercare esclusivamente l’Io trascendentale e assoluto o l’essenza delle cose.
All’interno di un’epoca si manifestano eventi, irriducibili a oggetti (naturali) generati da una causalità definita oltre che riproducibili come artefatti. L’evento sorge da una piega dell’esistente, quasi fosse increato, e si dilata dal proprio nucleo essenziale senza una previsione che ne prepari la ricezione, sempre in anticipo sulla conoscenza in grado di spiegarlo. Pertanto, non è mai ripetibile nei suoi stessi termini perché proviene da un generatore ignoto; già compiuto quando è ancora sconosciuto: accade necessariamente e deve oltrepassarci perché sia ricondotto nella sfera del pensiero riflessivo (Marion, 2005).
Il disturbo mentale appare un genere particolare di evento: interferire con un evento (indecidibile per origine e compimento) è azione costitutivamente diversa dall’agire su un oggetto (delimitato come concetto o materia). L’interferenza con l’evento ne genera altri lungo una scala ascendente di complessità. L’azione su un oggetto lo trasforma in un secondo, derivato dal primo, di cui si possono stabilire i limiti strutturali. Quando ciò non riesce, bisogna ipotizzare di non essere di fronte a un oggetto bensì ad un evento. Il problema viene traslato dalla teoria incapace di comprendere l’oggetto all’essenza stessa del fenomeno che, dapprima considerato quale oggetto maltrattato da una teoria difettosa (Sironi, 2003), dovrebbe essere concepito piuttosto come evento che come oggetto (Da Prato et al., 2009). Un fenomeno si avvita intorno a un destino diverso se viene trattato da oggetto o da evento. Ambedue interagiscono con il soggetto d’esperienza: il primo lo trasforma in oggetto (un secondo soggetto può scoprire le intenzioni dello sperimentatore a sua volta oggettivato), il secondo in evento (si dischiude un tempo intermedio in cui si accusa l’assenza di un ulteriore soggetto capace di stabilire le leggi che regolano la trasformazione del primo).
UN’ETNOPSICHIATRIA D’EPOCA
Il tratto peculiare dell’epoca contemporanea è la globalizzazione degli scambi materiali e immateriali tra blocchi di civiltà e popoli diversi (Bibeau, 1997; Inglese, 1997, 2003). Avanza la necessità di una nuova psichiatria che, al posto di riconoscersi come universale, dovrebbe concepirsi come internazionale anche se, oramai, planetaria. Il nomos geoclinico della psichiatria occidentale – idealizzato nel modello biopsicosociale – governa il mondo perché ha saputo riprodurre generazioni di professionisti emancipati dalle originarie matrici culturali e aderenti alle concezioni della propria disciplina. Quest’ultima estende il suo campo d’influenza anche grazie all’incorporazione di nuovi paradigmi che ammettono il ruolo esercitato dalle variabili culturali sui fenomeni psicopatologici (APA, 2004; Del Vecchio Good et al., 2008).
L’egemonia psichiatrica ha attraversato alcuni passaggi epocali di cui possiamo considerare come esemplare quello effettuato da Kraepelin in forma scientificamente consapevole ma del tutto casuale sul piano fattuale (viaggio a Giava, 1902). Un secondo passaggio è quello realizzato da Róheim (1932), programmatico e intenzionale sia sul piano scientifico che esperienziale.
STANZE, ISTANZE
Istanza Kraepelin – una prima base di partenza della Psichiatria transculturale è l’Istanza Kraepelin (Vergleischende Psychiatrie, 1904; Psichiatria comparativa, 1996): essa propone di comparare gli oggetti della psicopatologia attraverso le epoche, i popoli, gli spazi geografici e le culture. Le entità cliniche vengono individuate e classificate con il metodo dell’osservazione naturalistica, ancora inconsapevole delle interferenze ricorsive e asimmetriche tra soggetto e oggetto d’osservazione (Devereux, 1984). In base a questa istanza, l’evoluzione cronologica dei fenomeni morbosi confermerebbe retroattivamente la loro essenza invariante descritta dalla linea curva e chiusa di un ossimoro logico-formale secondo cui la prognosi è la diagnosi: il dopo giustifica il prima ma senza dimostrare che il prima determini invariabilmente il dopo. Tale ossimoro domina la classificazione delle psicosi funzionali sfuggenti alla presa del principio di causalità (a una causa nota un effetto proporzionato prevedibile). La psichiatria clinica non riesce a utilizzare in modo coerente il suddetto principio poiché soffre l’inesistenza di noxae non fallaci. La prognosi diventa simile a una diagnosi autoptica (a corpo morto e ad anima fredda), o differita – il compimento dello stadio finale di un processo patologico indecidibile, sulla scorta di criteri differenziali trasversali e sincronici, costringe a impiegare criteri longitudinali e diacronici forse addirittura asintotici (Inglese, 2010a).
Il rapporto tra psicologia, psicopatologia e cultura è risolto attraverso una sospensione di giudizio sul ruolo delle culture nell’accadere morboso3. Kraepelin preferisce esaltare la regolarità delle costanti universali riscontrabili nella fisiologia psichica e ne postula l’esistenza anche nelle declinazioni psicopatologiche. In tal modo appiattisce i risultati di Wundt (2009) – suo maestro di psicologia sperimentale, impegnato in una ricerca comparativa ed evoluzionistica (Vergleischende Psychologie) sulla psicologia dei popoli (Völkerpsychologie) – che invece evidenziano la distribuzione dell’umanità lungo stadi differenziati di funzionamento mentale.
Nella stessa direzione avanza la ricerca di Róheim, rivolta a confermare che negli altri mondi culturali gli uomini seguono le fasi di sviluppo ontopsicogenetico individuate da Freud nella società europea. Freud e Kraepelin affrontano i dilemmi delle rispettive discipline per mezzo di una epoché sostanzialmente scettica sulla capacità delle culture di rendere gli uomini diversi per organizzazione psicogenetica (Freud) e costellazioni sindromiche (Kraepelin). Al tempo stesso ne attivano una seconda sulla biologia, le cui parentesi saranno rimosse quando la fisiologia e la patologia dell’accadere psichico verranno spiegate entro tale dimensione materialista, oggettiva e universale4.
Istanza Devereux – la concezione generale dell’inventore dell’etnopsichiatria attribuisce agli uomini un’uguale natura biologica e gli stessi diritti naturali. A tale livello gli umani sono una variante zoologica che, sotto dettatura del programma biogenetico, effettua il salto evolutivo nell’ominazione (Genus homo). Questa creatura diventa capace di implementare nel suo patrimonio vitale (corporeo, mentale, sociale) la facoltà di delimitare una nuova dimensione dell’esistenza (cultura) entro cui riprodurre esseri singolari (umani), resi diversi dalle altre creature grazie a questa abilità acquisita e trasmissibile in via non biologica (socializzazione e linguaggio simbolico). L’invenzione della cultura avvia una selezione più precisa – etnizzazione – la quale permette all’essere umano general-generico di appartenere a un gruppo specifico che – fin dal mito delle origini – si distingue dagli altri, apparentemente simili ma considerati come semplici espressioni della natura (buoni da cacciare, mangiare, scalpare).
In altri termini, Devereux rimuove la sospensione di giudizio sul ruolo della cultura negli eventi autenticamente umani, anzi sottolinea che, laddove questo vertice non venisse raggiunto come attributo ontologico di un gruppo di uomini, nessun fenomeno psicologico e psicopatologico autenticamente umano potrebbe essere analizzato secondo intenzione scientifica. Per lui la cultura rappresenta l’emergente qualitativo dell’essere umano e diventa la dimensione contestuale che attualizza la tendenza ominizzante (generale) mentre plasma quella etnizzante (specifica), selezionate per vie biologiche e culturali. Ogni accadimento psichico dev’essere spiegato anche nei termini del programma e del contesto culturale in cui esso si realizza nel corso del divenire storico. La cultura agirebbe in modo determinante sulle funzioni mentali fino a differenziare settori dell’inconscio operanti solo in quegli individui che appartengono a una determinata cultura. Quale frutto di questa selezione, Devereux (2007) classifica costrutti psicopatologici riscontrabili in alcune culture e non in altre (disturbi etnici, tipici, sacri), mentre diffida di ogni riduzionismo incapace di misurarsi con i processi culturali e mentali soggiacenti all’evento psicopatologico. Il suo zelante differenzialismo tassonomico (varietà qualitativa delle tipologie patologiche), epidemiologico (prevalenza quantitativa di determinati tipi patologici in ambienti culturali differenti), clinico (modulazione dell’interazione terapeutica rispettando le matrici culturali generative del disturbo e quelle operative della cura) rimette in discussione le concezioni psicopatologiche e psichiatriche dominanti in Occidente.
Il programma di Devereux andrebbe rigenerato per diventare piano di comparazione tra le tecniche cliniche (terapie) piuttosto che tra le fenomeniche cliniche (sindromi) dei mondi culturali. Questo potenziamento dovrebbe passare dalla metodologia multidisciplinare che estrae i singoli saperi (es., filosofia e diritto, etnologia e linguistica, psicologia e medicina) da un solo campo culturale (modello multidisciplinare e monoculturale) a quella in cui si mobilita una sola disciplina tecnica (terapia) esportandola da vari mondi (modello monodisciplinare e multiculturale; Nathan, 2005). Si potrebbe inoltre costruire un terzo dispositivo operatorio costruito intorno a un modello multiculturale e multidisciplinare.
Grazie ad esso, il transito scientificamente libero verso altri mondi permette di esplorare nuove possibilità sul piano teorico (individuazione dei processi di produzione mentale di un essere umano culturalmente determinato), interattivo (utilizzazione delle lingue matrici e trasformazione del lavoro clinico nel quadro di una mediazione linguistico-culturale estesa), sociodinamico (esplorazione delle reti di appartenenza e dei processi di filiazione/affiliazione dei pazienti).
4 WAY STRETT: SYNOPSIS
Proviamo a disegnare le quattro vie che, all’interno di un’epoca data e per mezzo di peculiari epoché metodologiche (a parentesi forti o deboli), avvicinano o allontanano la distanza tra psicopatologia e cultura. Alla Istanza Kraepelin (IK) e Devereux (ID) affianchiamo quella Freud (IF) e Nathan (IN).
Istanza Kraepelin (IK): si fonda su una postura e un’intenzione reificanti – l’osservazione clinica riduce il fenomeno soggettivo a cosa oggettiva, separata e autonoma dall’osservatore, costituita da sintomi, ordinati e classificati come sindromi (a forma nota) in attesa di essere sistemate come malattie (a causa nota). Le forme e i temi discorsivi che accompagnano la sintomatologia non hanno ruolo né valore ai fini della cura. La parola del clinico non è strumento che allevia o trasforma la condizione di sofferenza perché questa viene spiegata (Erklären) come uno stato naturale mentre la parola è un prodotto culturale. L’istanza IK esercita una doppia epoché: sulla Cultura, racchiusa da parentesi non rimuovibili – [C] – in quanto campo di fenomeni che non influenzano il dato psicopatologico; sulla biologia, sospesa entro un’epoché che può essere rimossa – (B) – quando la forma incerta (sindrome) sarà collegata a una causa nota (noxa).
Istanza Freud (IF): si fonda su una postura e un’intenzione che reificano come cosa oggettiva l’esistenza di un apparato psichico naturale e latente, il cui stato indifferenziato può essere compreso da un secondo apparato identico ad esso, esistente all’esterno (analista operatorio che utilizza un dispositivo di interazione ad hoc) e altrettanto indifferenziato. L’apparato dell’analista è simmetrico a quello dell’analizzando sul piano della costituzione (identità di sostanza) ma asimmetrico sul piano della prassi (differenza conativa che si esprime nella parola interpretante e mutativa dell’analista). Anche l’istanza IF esercita una doppia epoché: la cultura è sottomessa a una sospensione chiusa – [C] – perché l’interesse psicoanalitico è rivolto allo strato più profondo e magmatico del soggetto; la biologia subisce una sospensione temporanea e tendenzialmente aperta – (B) – in attesa che il suo nucleo materiale spieghi il funzionamento della psiche e inventi gli strumenti che superino quello psicologico.
Istanza Devereux (ID): mantiene un’epoché indifferente sulla dimensione biologica – “B” – in quanto reputa che, qualora le leggi del vivente riescano a spiegare l’accadimento psichico, esse resterebbero insufficienti all’interpretazione dei nuclei mentali condizionanti il comportamento umano. Rimuove le parentesi in cui è stata contenuta la cultura – C – cercando in essa il corridoio per esplorare l’inconscio etnico, porzione differenziata dell’inconscio generale e determinante il comportamento patologico. L’essere umano è definito in base a una doppia matrice, culturale e psicologica; spezzandola si otterrebbe un individuo regredito allo stato di natura e completamente sussunto in quello di malattia (es., nella psicosi i fattori culturali sono decomposti in elementi a funzione anticulturale; Devereux (1939; 1965; 2007); Nathan (1978). Il primo livello (differenza funzionale su base etnica, esterna al soggetto) richiede l’elaborazione e la neutralizzazione del transfert/controtransfert culturale per raggiungere il vertice metaculturale, dove gli individui riescono a conservare una loro relazione significativa non distorta dalle determinanti culturali (Devereux, 1998). Esso richiede aggiustamenti tecnici della psicoanalisi classica per evitare la sussunzione del paziente nella matrice etnica del terapeuta.
Istanza Nathan (IN): convoca la cultura specifica del paziente che ne anima la costituzione psichica; quest’ultima resterebbe intransitiva e incomprensibile se riproposta quale manifestazione casuale di un attributo psicologico universale degli esseri umani. Questa istanza non solo revoca la sospensione di giudizio sulla dimensione generale della Cultura e sulla singolarità etnica – C/E – ma utilizza la seconda come leva operatoria (Nathan, 1986; 1996). Tale costituzione viene meglio rappresentata come principio vitale della persona, correttamente funzionante grazie al legame con la propria matrice culturale. La postura richiesta da questa istanza (IN) è rivolta all’ascolto delle voci del mondo a cui il paziente appartiene per utilizzare le modalità culturali che creano e curano il disordine mentale. Tale istanza provoca un potente rigetto scientifico in quanto la sua intenzione progressiva (apprendimento delle tecniche praticate nei mondi culturali dei pazienti) le ha permesso di diventare indipendente dalla psicoanalisi e dalla psicologia generale.
MIGRAZIONE, PSICOPATOLOGIA E CULTURA
La migrazione viene interpretata come processo attivatore di una vulnerabilità aspecifica o assunta quale traumatismo specifico. Sugli effetti della convergenza patogenica di questi due fattori si confrontano almeno due linee interpretative. Secondo la prima, maggioritaria, il cambiamento sociale innesca una catena processuale al termine della quale si ritrova l’incremento quantitativo associato all’invarianza qualitativa dei disturbi mentali. Essa enfatizza la gravità di tali disordini che si addensano al polo delle psicosi processuali (disturbi schizofrenici; Cardamone, Inglese, 2010). La seconda, ultraminoritaria, sostiene che traumatismo e vulnerabilità, combinati tra loro, innescano una psicopatologia mutevole e polimorfa che, superato il punto massimo di caoticità, decade inerzialmente verso uno stadio in cui si stabilizzano forme cliniche convenzionali (Almeida, 1972; Inglese, 2005a). Questa natura polimorfo-dinamica della psicopatologia da trapianto socioculturale consiste in morfologie cangianti e imprevedibilità evolutive, si sincronizza sull’asse temporale con il processo di adattamento psicosociale del migrante, viene oltremodo accidentata dalle criticità esistenti nell’accoglienza concessa dalla società adottiva (emarginazione, segregazione, xenofobia)
La mancata valorizzazione di questa seconda linea interpretativa ha riaffermato concezioni epidemiologiche che proclamano la preponderanza dei quadri psichiatrici maggiori e insistono sulla convinzione che la sindromica delle migrazioni sia del tutto sovrapponibile a quella registrata nelle popolazioni autoctone o stanziali (uguali tassi di prevalenza). Tale linea, inoltre, lamenta che nell’ambito della psichiatria delle migrazioni si affermano le diagnosi trasversali e sincroniche a scapito di quelle longitudinali e diacroniche. Essa critica che, privilegiando una diagnosi di stato indipendente dall’evoluzione cronologica, venga sancita in modo fallace l’estensione delle psicosi funzionali anche nelle generazioni discendenti dai migranti. Già in un passato remoto, A. Foville figlio (1875) aveva avvisato che la correlazione credibile tra movimento nello spazio ed evento morboso potesse essere stabilita solo in una quota selezionata di casi. Abbiamo sempre aderito alla prudenza metodologica di questo studioso e riscontrato, sulla base di osservazioni cliniche protratte nel tempo (in Italia e all’estero), che la quota più impegnativa dei disturbi mentali (psicosi) proposti dai migranti nelle società di accoglienza rappresentano il continuum distopico di condizioni morbose sussistenti prima della partenza, oltremodo rintracciabili lungo le filiere genealogiche dei pazienti esaminati. Le sindromi psicopatologiche maggiori si innestano spesso su un tronco organico attaccato da virus e parassitosi, traumi da parto e perinatalità complicate, deprivazioni alimentari, epilessie, endocrinopatie. Errori diagnostici e approssimazioni teoriche scaturiscono dal non saper analizzare le migrazioni in quanto strategie di popolazione e politiche istituzionali che proiettano nelle società adottive il carico epidemiologico gravante su quelle di origine (liquidazione dei sistemi di protezione sociale, di assistenza psichiatrica, della vita civile stessa in vari Paesi; Inglese, 2005b). Tra i gruppi di popolazione stretti nelle spire delle migrazioni coatte ve ne sono diversi che provengono da strati marginali, desocializzati e deculturati, violati o malati. In assenza di osservazioni cliniche bilocate (spinte dalle società adottive a quelle d’origine) e di studi pertinenti la storia dei territori di provenienza, continuano ad essere classificati come nuovi casi molte condizioni disfunzionali preesistenti, erroneamente attribuite all’azione psicopatogena della migrazione.
L’interpretazione traumatologica e il riconoscimento della diatesi psicosociale (vulnerabilità) – soprattutto la diatesi traumatofilica dei migranti di prima e seconda generazione – assegnano un ruolo psicopatogeno determinante alla mutazione dell’ecologia sociale del paziente. Il rendimento esplicativo di questo paradigma diminuisce in modo progressivo: individua la migrazione come “nuovo” fattore sociale ad effetto psicopatogeno massivo (apocalisse culturale/psicopatologica; de Martino, 1977) ma da questa novità ricava solo una “vecchia” clinica.
PROTEUS
Riesumiamo dall’archivio un testo dedicato alla panoplia polimorfo-dinamica che riveste la psicopatologia correlata alle dinamiche di trapianto socioculturale (Almeida, 1972). Questo studio, critico e celibe, muove dalla consapevolezza che le migrazioni sono il laboratorio sperimentale dove mettere alla prova il ruolo dell’ecologia sociale nella determinazione di eventi psicopatologici. Esso inoltre denuncia che la tradizione ideologica tendente a rinnegare l’importanza della differenza culturale (universalismo assimilazionista) proviene dalla stessa intolleranza nei confronti dell’alterità la cui massima espressione si incarna nelle derive razziste (Siebert, 2003).
L’evento migratorio produce sintomi e sindromi con caratteri atipici sia rispetto alle forme epidemiologiche registrate nei paesi d’origine, sia a quelle autoctone dei contesti adottivi. Rispetto alla forma, i migranti presentano sindromi appartenenti a gruppi nosografici inconciliabili che si mescolano tra loro o si succedono a ritmo accelerato all’interno di una stessa patobiografia, sovvertendo l’originaria classificazione kraepeliniana e quelle ad essa ispirate (DSM IV-TR). La conferma empirica di questo ragionamento è offerta dalla sostituzione successiva delle etichette diagnostiche applicate ai migranti nel corso del tempo (es., direttrice principale: reazione psicotica breve; depressione atipica; disturbo schizofreniforme; schizofrenia; poi sostituita da quella: sindrome melanconica, turbe caratteriali, disturbo di personalità). In rapporto all’evoluzione, le sindromi dei migranti balzano da livelli di estrema gravità a condizioni di equilibrio mentale prive di tratti residuali o, all’opposto, si commutano da manifestazioni frustre e mascherate a configurazioni produttive oppure deficitarie. Questa proposta teorica ruota intorno alla convinzione che il trapianto transculturale induca crisi multiple di identità, correlate all’accelerazione e all’irrevocabilità del cambiamento. Le crisi rappresentano il conato di un riadattamento alle deviazioni del contesto di esistenza (società rurali vs ambienti metropolitani; socialità solidali vs individualismo competitivo; sovversione di gerarchie di genere e d’età). Le identità acquisite nei luoghi del trapianto rappresentano maschere difensive da indossare per poter salire sulla nuova scena sociale. Esse sono altrettante identità sintomatiche messe a disposizione del migrante, attraverso le quali è in grado di recitare partiture pronte per l’uso ma di cui sono state scritte solo le battute iniziali: spetta all’attore nascosto dietro la maschera improvvisare le frasi successive. Il migrante è torturato da un dilemma: se improvvisa la recitazione sbaglierà puntualmente la battuta seguente; se interpreta solo la prima frase, suggerita dal nuovo contesto di vita, si bloccherà in una routine sintomatica che imita il disturbo mentale prevalente nello scenario adottivo. L’intenzione diagnostica promuove un processo di naturalizzazione dello straniero che segue una via breve (psichiatrica) ma senza uscita (patologica). Per questa ragione va raccomandata un’interazione terapeutica fluida che riattivi nel migrante funzioni adattive non congelate nella cella frigorifera della clinica istituzionale (socioterapia e psicoterapia culturalmente sensibili; attivazione di reti sociali; mediatori linguistico-culturali).
IRRISOLVENZA
La Psichiatria transculturale e l’Antropologia medica (Crudo, 2004; Kleinman, 1988) hanno saputo raffinare la conoscenza della diatesi psicopatologica incardinata nell’esperienza del mutamento e della traslocazione culturali ma non riescono a:
a) risolvere il problema delle atipicità sindromiche;
b) riaggregare i frammenti sintomali eccedenti (per morfologia, semantica e cronologia) che si offrono come indizi semeiologici di forme patologiche ignote (Favazza, 1996);
c) confrontarsi con gli idiomi sintomatici delle psicopatologie allogene (Culture-bound Syndromes);
d) spiegare la resilienza alla psicopatologia offerta dalla maggior parte degli stranieri trapiantati. Tale astenia interpretativa si basa sull’incomprensione dei meccanismi di difesa – biologici, psicologici e culturali – che assorbono l’impatto traumatico della migrazione oppure organizzano la resistenza al processo di deculturazione. L’analisi di questo aspetto dissipativo (affiliazione mancata alla cultura originaria) è stata sopraffatta da quella avente come oggetto il disadattamento provocato dall’acculturazione, fase accumulativa (affiliazione conflittuale alla cultura adottiva) dello scambio interculturale.
Lungo queste linee di faglia si incontra una serie enigmatica di fenomeni empirici. In generale, la deterritorializzazione dei flussi psicopatologici provoca: 1) trasferimento nei contesti adottivi di patologie tipiche nei mondi originari ma di natura incerta per la clinica occidentale; 2) modificazione della tipicità patologica d’origine che ne inceppa la comprensione da parte dell’intelligenza clinica della società adottiva e della nosologia tradizionale; 3) pressione selettiva sul disagio transculturale, esercitata dal contesto d’adozione, per cui esso diventa trasparente allo sguardo psichiatrico ma opaco alla nosologia tradizionale; 4) trasferimento di modalità patologiche provenienti dai mondi migranti che si riproducono anche nei gruppi adottivi (“contaminazione” contemplata nella nosologia mohave; Devereux, 1996).
I disturbi dei migranti più simili a quelli dei loro ospitanti possono essere una maschera patologica, culturalmente estranea, calata sulla fisionomia reale del disagio vissuto in terra straniera. Questo travisamento potrebbe diventare un volto permanente a causa dell’eliminazione dei tratti antropologici originari del migrante; può essere invece opportunistico allo scopo di resistere all’azione del cambiamento culturale (Inglese, Gualtieri, Bonifati, 2009).
SINDROMI CULTURALMENTE ORDINATE
La psichiatria transculturale deve ritornare su tutti gli oggetti psicopatologici e le sindromi psichiatriche da riposizionare rispetto ai loro assi culturali (Kleinman, 1988b). Per sviluppare questo programma, bisogna articolare diversamente le prospettive epidemiologiche ed eziopatogenetiche affermatesi come generatori esplicativi. Vorrei qui proporre una “congettura” dilemmatica: se la migrazione dei popoli e l’acculturazione massiva (immateriale, interstiziale, a distanza) determinano una sovrimpressione tra i mondi, si dovrebbe ipotizzare che a questa novità antropologica corrisponda una nuova psicopatologia.
Il programma di ricerca adeguato a questa realtà deve invertire il rapporto di forza che impone come dominanti le forme tipiche del disordine mentale e subalterne (recessive) quelle atipiche. Bisogna riequilibrare l’epidemiologia psichiatrica e, soprattutto, riportarsi al grado zero dell’istanza kraepeliniana per riordinare le patologie secondo altri criteri di organizzazione. Il default nosologico favorirebbe l’individuazione di fenomeni morbosi che rinviano a un insieme parallelo di disturbi mentali.
Il punto di partenza della congettura suddetta è incardinato sulle Sindromi Culturalmente Ordinate (Culture-bound Syndromes – CBS: Sindromi culturalmente caratterizzate, secondo l’edizione italiana del DSM IV-TR; Inglese, Peccarisi, 1997). Esse possono diventare i punti cardinali di un nuovo ordine clinico: questa categoria marginale diventa addirittura assiale proprio in ragione del ruolo esercitato dai fattori culturali. Rilancio la formula di Sindromi Culturalmente Ordinate (Inglese, 2010c) per rimarcare che ogni gruppo umano elabora un ordinamento nosologico ispirato alla propria visione del mondo, del male e della malattia. Il sistema classificatorio adottato (“povero” di elementi interpretativi o di figure cliniche: polo Sedang; “ricco” di ambedue: polo Mohave; Devereux, 1985, 1996) diventa comprensibile attraverso lo statuto assegnato da ogni gruppo a: persona, corpo, emozioni, invisibili non umani (spiriti, antenati, forze naturali). Ordinato significa pure che le culture selezionano e prescrivono modi altamente specifici di ammalarsi. La cultura, inoltre, ordina modalità terapeutiche elettive delle patologie in essa emergenti, in grado di estendersi come una rete di dispositivi a protezione somatopsicologica e relazionale. Il sistema culturale, al contempo, è un motore perturbativo, capace di predisporre, precipitare e causare l’insorgenza dei disturbi (Tseng, 2003). La comprensibilità di una CBS dipende dalla sua contestualizzazione all’interno di un mondo determinato; ciò richiede una conoscenza delle leggi costitutive e delle dinamiche socioculturali in esso esistenti. Non serve riconoscere la cultura come dimensione correlata al disturbo, in astratto, ma bisogna ponderarne l’effetto su quest’ultimo fino a misurarlo nel singolo caso.
Occorre descrivere accuratamente il tipo ideale di ogni CBS per affrontare le situazioni in cui il ruolo della cultura appare verosimile ma che sono ancora prive di nome o non assegnate a un dominio definito (religione, clinica, costume culturale; Simons, Hughes, 1985). La CBS non rappresenta un’entità solitaria e assoluta ma è associata e relativa (comparata) al repertorio clinico del contesto dato: affiancata da altre, rinvia a una precisa discriminazione differenziale. La singola CBS non è una declinazione idiomatica di una lingua psicopatologica universale ma un codice espressivo autonomo e diverso da un’altra lingua nosologica. Questo linguaggio non può essere decifrato attraverso un locutore casuale (paziente) o con il semplice apporto di testimoni contingenti (famiglie): è il sistema nosologico professionale, rintracciabile in ogni società, a conferire una forma, offrire un’interpretazione e prestare un intervento tecnico sul disordine mentale. Tali sistemi hanno profondità storica, modificano le teorie e le tecniche a loro disposizione, costituiscono apparati concettuali suscettibili di trasformazione, aperti e permeabili alle influenze più diverse.
La forma paradigmatica della CBS dovrebbe permettere di risalire all’identità culturale del paziente e, soprattutto, al mondo antropologico di cui essa è manifestazione peculiare; viceversa, conosciuta l’appartenenza antropologica del soggetto, si dovrebbe discendere da quest’ultima alla gamma di disturbi culturalmente ordinati che il paziente può costruire: non basta conoscere una sola patologia tipica di un mondo culturale poiché il paziente potrebbe non presentarla ma offrirne una diversa, oltremodo contemplata nella nosologia di quel mondo.
Tale metodo ostacola la frettolosa annessione, per affinità superficiale, della singolarità sintomatica a una categoria esistente nella nosografia occidentale. La dissezione e la riaggregazione dei sintomi di una CBS le fanno perdere la coesione sindromica culturalmente determinata e ne accentuano il nomadismo transnosografico. Muovendosi in questo modo essa riappare contemporaneamente in varie categorie apparentate o estranee tra loro (es., il Koro – retrazione dei genitali – può essere indicizzato come disturbo ipocondriaco, dismorfofobico, psicosessuale, di panico, di depersonalizzazione).
Il disordine mentale esprime un proprio divenire globale a causa di retroazioni tra l’epifenomeno e le codificazioni esplicative degli attori sociali (medici, guaritori, famiglie, organizzazioni politiche, sistemi religiosi). Un approccio fluido alle modificazioni storiche dei vari tipi psicopatologici – dagli anormali alle personalità multiple – si scopre tanto più pertinente rispetto alle CBS (Foucault, 2000; Hacking, 1996). Ciò richiede un aggiornamento continuo di queste sindromi per seguirne l’andamento epidemiologico, registrare il grado di stabilizzazione delle loro sintomatologie, analizzarne i modi di produzione nel ciclo vitale di un gruppo umano. Le CBS sono entità plastiche e variabili ma non volatili né effimere (radicate nel sostrato culturale di cui si nutrono), semmai diventano recessive (si eclissano dietro miti e leggende) o si dissimulano in altre nicchie sociali (scivolano silenziose dal dominio clinico a quello religioso).
PSICOPATOLOGIA RICOMBINANTE
La maggioranza delle CBS resiste nel tempo e non si estingue durante l’esodo e la diaspora dei popoli. Questi due eventi preparano scenari mobili e sorprendenti: nelle situazioni di contatto sociale squilibrato, le CBS non sono immediatamente e necessariamente sostituite dai disturbi tipici di un’altra realtà culturale (es. disturbi schizofrenici al posto di perturbazioni isteriformi) ma si riproducono su se stesse quando la mutazione del contesto materiale di vita non trascina la trasformazione delle matrici mentali dei gruppi umani. Nelle prime fasi della dislocazione migratoria, gli individui ripropongono i sintomi delle proprie CBS in grado di conservare la loro tipicità anche dopo un lungo intervallo dalla proiezione nei luoghi più lontani ed estranei (ambienti saturi di CBS migranti). Ignorando la Sindrome Culturalmente Ordinata, gli psichiatri traducono la sua lingua sintomatica nel codice di una diagnosi standardizzata (categorie universali). Questo impegno alimenta errori classificatori inemendabili: il senso originario della lingua sintomatica viene trasposto in due o più categorie diagnostiche considerate equivalenti, ovvero indecidibili. Quando un sintomo bizzarro fa deragliare l’appropriatezza della diagnosi iniziale, si scelgono qualificazioni del disturbo che ne impediscono l’evasione dalla cella categoriale predisposta (quadro “atipico” di un’entità tipica). Se la configurazione morbosa subisce un’oscillazione più ampia (es., transito dalla lamentela corporea soggettiva, stimata come disturbo umorale “mascherato”, alla percezione o ideazione delirante a tema somatico), anche la diagnosi vira bruscamente (polarizzazione diagnostica su una diversa forma “tipica”, più complessa, che stigmatizza l’alienità del paziente sul piano psicopatologico e, surrettiziamente, antropologico). Viceversa, la lesione irreparabile del modello culturale e la separazione dal contesto antropologico inibiscono la capacità del paziente di ricorrere a una CBS utilizzabile per rispondere a uno stress attuale ma non previsto dalla cultura d’origine (Devereux, 2007). Il vuoto sindromico viene riempito da un disturbo mentale tipico della società ospitante e rappresenta il segnale di un’affiliazione individuale alla cultura adottiva (iniziazione e naturalizzazione culturale per via morbosa e/o iatrogena). Una simile deviazione psicopatologica può avvenire anche all’interno della società originaria del paziente, quando un disturbo etnico provvisorio (tampone sindromico) prima si sovrappone e poi diventa idiosincrasico (deviazione individuale dal modello nosologico idealtipico).
L’identità culturale e la forma psicopatologica potrebbero non allinearsi tra loro: esaurita l’esplorazione delle opzioni psicopatologiche (CBS) offerte dal mondo di appartenenza, l’indagine deve spostarsi sulla ricombinazione identitaria e clinica che produce una forma patologica diversa, inesistente nel sistema nosologico originario e d’adozione. La rottura delle matrici socioculturali causa la disgregazione delle CBS e provoca la liberazione dei suoi frammenti morbosi non più compattati dalla forza di legame del campo antropologico di provenienza. Essi non possono essere assimilati nelle matrici adottive perché anche queste sono erose e spezzate. La dissipazione dell’energia coesiva che garantisce la tenuta strutturale dei due ambienti culturali permette ai fenomeni sintomatici di ricombinarsi tra loro come in preda a un vortice centrifugo, i cui prodotti proteiformi crescono di numero e variano per qualità, rendendo persistente il loro polimorfismo. L’instabilità delle nuove configurazioni psicopatologiche è creata dall’esplosione della loro coerenza sindromica, conseguente alla perdita di coesione del nucleo culturale originario nei cui interstizi si piantano elementi estranei provenienti dai mondi più diversi (moltiplicazione incommensurabile degli scambi simultanei tra popolazioni allogene). Questa stratificazione disordinata genera situazioni cliniche ibride in cui, ad esempio, condotte di abuso alcolico (tipiche del contesto adottivo) sono innescate dall’induzione persecutoria di un sortilegio (tipica del modello culturale d’origine). Gli effetti della ricombinazione di sintomi e sindromi non sono più riconducibili entro categorie nosografiche discrete e obbligano il clinico, inizialmente, a giustapporre addendi diagnostici (comorbidità “lunghe”) che proclamano l’insorgenza di patologie eterogenee in una stessa mente. Procedendo in tal modo, ma portandosi a un vertice più elevato di astrazione descrittiva, questo assemblaggio di disturbi, metodico quanto acritico, crea chimere categoriali poste ben oltre gli attuali confini della tassonomia convenzionale. L’eccezionalità dello scenario sociale (ricombinato dalla globalizzazione) corrisponde a quella dello scenario clinico (ricombinazione psicologica e psicopatologica). Entrambe ci invitano ad enfatizzare il processo generale di ricombinazione che diventa principio di produzione e di funzionamento degli esseri umani in un determinato ambiente antropologico. Ricombinare significa riunire qualcosa che ha prima subìto una divisione: processo ubiquo in natura, riguardante le strutture biogenetiche (es., geni) e fisico-chimiche (ioni, elettroni, atomi), che porta alla luce proprietà ed entità materiali prima inesistenti. In biologia, la ricombinazione spontanea realizza corredi genici che codificano nuove proprietà. Questo processo naturale viene simulato, ad esempio, dalle tecniche di DNA-ricombinante che consentono di tagliare alcune sequenze della doppia elica per inserirle sui filamenti genetici di un altro individuo. L’organismo ricevente viene così convertito in una fabbrica di prodotti che sono sintetizzati sulla base delle proprietà dei frammenti inseriti. Se il procedimento artificiale crea secondo intenzione pianificata, quello naturale segue un andamento evenemenziale e aleatorio. Qui le nuove forme prevalgono solo dopo aver forzato e superato limiti strutturali o funzionali precedenti. Inoltre, le entità ignote esercitano una pressione su quanto esiste nel loro raggio d’azione e moltiplicano la tensione ricombinante già presente in un dato ambiente biologico, dove incomincia la competizione tra quanto sorge per la prima volta e quello che rischia l’eliminazione dal novero dell’esistente.
L’effetto della psicopatologia ricombinante è certamente complicato per la teoria ma diventa ancora più complesso per la pratica clinica. Intanto, la tendenza ricombinante lascia immaginare la creazione di mondi a menti multiple – apprezzabili come soggettività eterogenee e proliferanti – a culture molteplici e a eventi infiniti5. Dall’interazione tra queste dimensioni derivano processi di ricombinazione psicopatologica che assicurano la nascita di nuove entità cliniche; ad esempio: anoressie indotte da un misticismo sordo al richiamo della trascendenza; modificazioni esogene degli stati di coscienza reiterate per via compulsiva – multiaddiction che metabolizza sostanze e impasta comportamenti finanche virtuali (ludici, sessuali, manipolatori) – senza la forza profilattica delle affiliazioni iniziatiche; conversioni religiose virtuose fino al fanatismo dove la rigidità del pensiero idiosincrasico trasmuta in quella di una concezione ideologica condivisa da gruppi scismatici (Inglese, 2008).
Queste configurazioni spiazzano le catalogazioni impiegate in età precedenti: al posto della ripetizione “naturalistica” di entità patologiche già note, l’epoca del Terzo Millennio ne propone di ignote oltre che ancora poco rappresentate: la rarefazione numerica è un indice di una tendenza epidemiologica in via di organizzazione, vieppiù misconosciuta dagli studi correnti ma rintracciabile nell’inadeguatezza applicativa lamentata quotidianamente dai clinici. Appare poi drammatica la scissione tra la standardizzazione preconizzata in materia di diagnosi e terapia (es., linee-guida) – fondata sulla stabilità delle forme patologiche e sulla prevedibilità degli esiti trattamentali – e la metamorfosi dei disturbi mentali.
In genere, l’abilità dei clinici viene misurata sulla capacità di ricondurre l’incognita diagnostica all’interno di una precisa filiera nosografica (una classe chiusa in cui dimorano altri n pazienti e aperta solo alla fluttuazione statistica). Essa dovrebbe ora consistere nell’avvicinare il soggetto sofferente in quanto possibile primo caso di una filiera oscura (paziente zero), ammettendo finanche che tale insieme possa essere rappresentato da un solo membro.
RITORNO A DAKAR
La proposta di psicopatologia culturale che abbiamo avanzato riorganizza il disordine mentale in tre aggregati: 1. quadri stabili (categoriali) – ammettono variazioni atipiche e si associano ad altri disturbi dello stesso rango (diagnosi addizionali). La ricerca transculturale dovrebbe risalire alle epoche storiche in cui essi si sono affermati nelle società umane, assurgendovi a entità naturalistiche e ubiquitarie (es., posizione ippocratica intorno al male sacro). In tale gruppo rientrano le CBS, da analizzare nei loro momenti costitutivi, (gestazione storico-antropologica) e (ideal-typus nosografico riesaminato alla luce delle nosologie tradizionali); 2. quadri polimorfo-dinamici – elettivi del trapianto geoculturale, sviluppati durante l’allontanamento dal punto di equilibrio psicosociale e in risposta (dis/adattiva) al condizionamento da parte di un ambiente estraneo. In questi casi il disturbo presenta caratteri nosografici molteplici e permutati durante lassi temporali ristretti. La loro evoluzione e velocità di sostituzione sono sincronizzate con la temporalità del cambiamento sociale: modifiche positive del contesto di vita restituiscono migliori livelli di adattamento attraverso la cancellazione dei tratti patologici; 3. quadri ricombinanti – incominciano a presentarsi nell’epoca della globalizzazione, che determina: frammentazione e ricomposizione di elementi sintomali e porzioni sindromiche in modo da fabbricare disturbi non ripartibili per categorie convalidate. Essi sono prototipi in attesa di un piano di riorganizzazione nosografica della loro natura. Il versante più accidentato di tali entità non consiste nell’inquadramento (resteranno a lungo indefinibili per via della fisionomia chimerica) ma nel loro trattamento: l’opacità allo sguardo psichiatrico e alle nosologie tradizionali impone terapie sperimentali, ibridate, al limite della singolarizzazione operatoria.
L’interrelazione tra questi tre assetti – dotati di un’inclinazione che impedisce finanche ai quadri clinici stabili di rimanere inalterati e immobili (il tipico diventa puntualmente atipico) – è stata intravista da Henri Collomb (1965) mentre batteva la pista della psicopatologia africana. Egli considerò la Bouffée délirante (BD) quale espressione tipica del mondo africano (alta frequenza) e ne illustrò il polimorfismo sintomatologico, l’estrema intensità, la breve durata, la risoluzione prevalentemente positiva. Sulla scia di Devereux (Linton, 1956), Collomb evita di naturalizzare questa forma clinica ed evidenzia che il suo incremento risulta correlato alle trasformazioni delle società tradizionali, imputabili ai primi sussulti delle migrazioni interne e internazionali. Tali mutazioni dissolvono la personalità sociale del paziente e lo gettano in una condizione disfunzionale durante contingenze critiche che ne minacciano lo status pubblicamente conferito. Questa personalità non può essere alienata senza subire il contraccolpo dell’ignoto e questo si manifesta con l’aspetto di entità invisibili, oltremodo minacciose, che risalgono dal fondo scuro del mondo tradizionale. Il tratto peculiare della socializzazione africana degli anni Sessanta è rappresentato dall’embricazione di ideologie, religioni, stili di vita e istituzioni tenute separate fino alla svolta epocale dell’indipendenza, decolonizzazione e modernizzazione ricalcata sul modello occidentale. Collomb sottolinea due aspetti: 1) il polimorfismo e la benignità distinguono la BD dai quadri psicotici o nevrotici più gravi (es., schizofrenia e spettro fobico-ossessivo). La sindrome attualizza il cambiamento della personalità sociale, impegnata sul fronte della crisi anche grazie al sostegno delle terapeutiche tradizionali efficaci nel guidare questa ristrutturazione personologica: alla psichiatria occidentale resta solo il compito di smussarne la punta similpsicotica; 2) la BD diventa maligna quando i nessi eziologici di una serie tradizionale (castigo da parte di un jinn offeso; attività malevolente di un marabutto) incrociano quelli di un’altra (stregoneria antropofagica; violazione di tabù ancestrali). Questa collisione provoca una ricombinazione dei vari fattori: alcuni di essi acquistano nuove proprietà (i rab uccidono come gli stregoni, mentre questi esigono i sacrifici animali destinati ai primi) o si mettono in rapporto con altre entità (i rab si confondono con i djinné e i seytané; il marabutto duella con lo stregone e attacca i suoi feticci).
Questo secondo gruppo di eventi esprime la degradazione e la corruzione della BD che perde in potere protettivo, consegnando la sua sintomatologia caleidoscopica all’incurabilità o all’inguaribilità. Collomb sa vedere il polimorfismo e il vortice di disadattamento/riadattamento della BD socialmente pilotata (ritualità tradizionale); riesce pure a cogliere i punti morti di questo processo clinico e sociale ma riassorbe i suoi esiti nelle psicosi funzionali (schizofrenia). La descrizione collombiana, invece, suggerisce che la tendenza ricombinante (sociologica e clinica) sia partita dalle società native maggiormente esposte a mutazioni parziali o sistemiche (conflitto tra comunità pagane, pressione islamica e colonizzazione europea). Un indice certo di ricombinazione in atto è siglato dall’inefficacia delle terapie tradizionali: il loro limite è stato inchiodato dallo scetticismo psichiatrico sul confine rigido delle psicosi schizofreniche e organiche ma oggi, forse, quel limes andrebbe spostato lungo la linea frastagliata della psicopatologia ricombinante dove si attestano le nuove sembianze del disordine mentale.
NOTE
[1]. Nell’avanzare questa associazione ideativa penso a come Georges Dumézil (1976) rilegge la lezione di Erodoto e Cesare, seguendo coordinate storiche, etnologiche e culturali che permettono un raffronto per similitudini progressive tra mondi altrimenti inavvicinabili e a lungo concepiti come reciprocamente estranei (mondo indoiranico, italico, romano, scandinavo e germanico).
[2]. Secondo Dilthey, l’epoca è una struttura centrata su sé medesima e che lega in un unico insieme tutte le sue manifestazioni – il compito dell’analisi storica è di rintracciare la coincidenza degli scopi, valori, modi di pensare inerenti all’epoca stessa: l’importanza del contributo che un singolo o una disciplina portano alla storia del genere umano può essere calcolata solo in riferimento alla struttura totale dell’epoca stessa. Essa può assumere anche il carattere di una svolta necessaria del destino nel corso di una cultura (Spengler).
[3]. Definiamo cultura una costruzione ideologica e materiale, propria di un collettivo umano, che contiene una visione teorica e tecnica dei processi di cura dal male e dalla malattia. Bisogna sempre puntualizzare quali siano le culture che lavorano solo a livello del male (culture etiche) e quali a quello della malattia (culture mediche), oltre a riconoscere l’oscillazione di queste due dimensioni dell’esistenza in ogni individuo culturalmente determinato (Rossi, 1970).
[4]. Le aspettative fondate sull’invarianza biologica vengono progressivamente ridimensionate proprio dalla ricerca ancorata alla materia vivente: il Sistema Nervoso Centrale risente delle variazioni ambientali mentre la rete neurale sembra dotata di una plasticità radicale piuttosto che coartata nella ripetizione di uniformità strutturali o funzionali.
[5]. Ascendenze e ispirazioni extracliniche: W. Burroughs (linguaggio virale); Ph. Dick (mondi multipli a sostanze contaminanti e caotizzanti, fino a sovversione radicale dell’oggettività e unidimensionalità del tempo, della natura fondamentale dell’essere umano e dell’ambiente sociale); W. Gibson e B. Sterling (infosfera e matrici virtuali). L’immaginario di questi autori si collega alle avanguardie artistiche del Novecento (dadaismo, futurismo, punk), finanche Collomb scava nella brousse senegalese con gli attrezzi concettuali di A. Breton e P. Klee. Su questo tracciato andrebbero valorizzati anche psicoanalisti come J. Kafka o A. Modell e ripensata, soprattutto, la categoria del divenire secondo Deleuze e Guattari.