Commento alla notizia adnkrons del 5/10/2016
Per un nuovo Percorso diagnostico terapeutico assistenziale (Pdta)
Il carcere si caratterizza come un’istituzione totale portatrice in sé di un surplus di sofferenza psico-fisica che si aggiunge alla segregazione.
Goffman definisce le istituzioni totali come luogo di residenza e lavoro di gruppi e persone che si trovano a dividere una situazione che li accomuna, per un considerevole periodo di tempo, trascorrendo parte della loro vita in una regime chiuso e formalmente amministrato. L’internamento in un’istituzione totale ha come diretta conseguenza una radicale emarginazione. Infatti, la caratteristica principale delle istituzioni totali consiste nell’innalzamento di una grossa barriera con l’esterno.
La comunicazione con la realtà sociale risulta dunque seriamente compromessa. Il carcere quindi, per sua stessa natura è un luogo di isolamento e alienazione e comporta la riduzione ai minimi termini delle possibilità comunicative interne ed esterne.
Tutto ciò in un’epoca di rivoluzione multimediale, in cui si è passati da “società di informazione” a “società di comunicazione”, dove il mezzo di comunicazione non è più solo mezzo, ma contenuto stesso ed il soggetto è al tempo stesso destinatario e fonte di messaggi multi-direzionali.
Finire in carcere oggi significa anche interrompere bruscamente una comunicazione digitale e globale in cui siamo immersi: internet, social networks, realtà virtuale e senza la quale ci si può sentire persi.
Nelle carceri, infatti, oltre all’amplificazione di quadri psicopatologici preesistenti alla reclusione, si osservano spesso disturbi mentali di nuova insorgenza. In Italia un detenuto su tre soffre di malattie mentali. Sul totale della popolazione carceraria (circa 70 mila persone) sono quindi 20 mila quelli che convivono con una patologia psichiatrica. Psicosi, depressione, disturbi bipolari e di ansia, anche severi, sono la norma nel 40% dei casi a cui vanno aggiunti poi i disturbi di personalità borderline e antisociale. Negli ultimi anni in Italia si è assistito al picco di suicidi nei penitenziari con tassi aumentati negli ultimi anni di circa il 300%.
Il dossier “morire di carcere” ha segnalato – solo nei primi sei mesi dell’anno – già 23 suicidi all’interno delle nostre carceri; in tutto il 2015 i suicidi erano stati 43.
Inevitabile la riflessione su possibili interventi rivolti al detenuto psichiatrico, inevitabile ripensare alla mia esperienza lavorativa presso la Casa di Reclusione di Saluzzo, risalente agli anni in cui la gestione della psichiatria in carcere era ancora di competenza del Ministero di Grazia e Giustizia.
Per un totale di 350 detenuti, le ore attribuite allo psichiatra erano 60 mensili, veramente un’inezia se si pensa al tempo da dedicare al sostegno e la cura di coloro che ne facevano richiesta. In questa situazione ricordo di essermi posto più volte come contenitore di ansie ed angosce, sofferenze senza nome, ascoltando per capire, non per rispondere.
In quanto consapevole dei limiti dell’operare psichiatrico in tale conteso, i miei obiettivi erano quelli del recare aiuto, di alleviare le sofferenze, di supportare la persona di fronte alle difficoltà che frequentemente gli si prospettano nel momento della condanna, durante la carcerazione ed anche in vista del reinserimento nella vita libera. Questo tipo di attività comporta pertanto un atteggiamento di completa disponibilità, di empatia e di alleanza terapeutica., senza però dimenticare la responsabilità di effettuare un intervento pur sempre mirato a trattamenti correzionali, tenendo presenti i fini istituzionali della risocializzazione.
La difficoltà del lavorare con il “folle-reo” di quegli anni, mi porta a condividere e sostenere la mission del progetto “Insieme, salute mentale in carcere” che presuppone una nuova visione della psichiatria penitenziaria, l’integrazione di diverse figure professionali e una continuità terapeutica assistenziale dopo la scarcerazione.
Partendo dal presupposto che è fondamentale parlare di diritto di cura, piuttosto che di luogo di cura, ritengo come punto di partenza il concetto che i detenuti sono persone meritevoli di cura e tutela, siano essi in carcere o nelle Rems, e che questo si possa/debba attuare mediante un progetto multidisciplinare: un nuovo Percorso Diagnostico Terapeutico Assistenziale, a partire da un processo diagnostico ben preciso, passando per un intervento adeguato ed integrato, per finire con una continuità assistenziale successiva.
Oltre all’apporto di risorse concrete nei luoghi di detenzione, (un numero corretto di operatori “psi” e “non psi” che operino con adeguati mezzi e tempistiche), penso che siano indispensabili corsi di formazione, così come la possibilità di potersi avvalere di consulenze e sostegno psicologico, destinati sia agli operatori del “dentro”, che operano negli istituti di detenzione, sia agli operatori del “fuori” che lavorano sul territorio: proprio l’integrazione tra “il dentro ed il fuori”, permette di contribuire attivamente alla politica sociale e sanitaria del Paese.