Quando pensiamo a un crimine, tendiamo a concentrarci molto di più su chi lo compie rispetto a chi lo subisce. Anche i giornali danno più risalto al carnefice rispetto alla vittima, se non eventualmente per colpevolizzarla o per analizzare al microscopio ogni singolo aspetto della sua vita. In questo senso, lo studio della vittimologia può aiutare a comprendere meglio le caratteristiche dietro alla vittima, così da poter analizzare meglio i contesti dei crimini.
La vittimologia
La Risoluzione delle Nazioni Unite definisce la vittima come “persona che, individualmente o collettivamente, ha sofferto una lesione, incluso un danno fisico o mentale, sofferenza emotiva, perdita economica o una sostanziale compressione o lesione dei propri diritti fondamentali” attraverso un gesto in violazione del codice penale. La vittimologia è quindi la disciplina che studia le vittime dei reati, analizzando nello specifico le loro caratteristiche fisiche, psicologiche ed emotive anche in relazione al contesto socio-culturale in cui vivono. Si parla di comportamenti, personalità, aspetti etici, culturali, sociali e psichici che
caratterizzano la vittima di un reato.
La vittimologia nasce intorno al 1940 grazie a criminologi come Fredric Wertham e Benjamìn Mendelsohn e indaga anche sulla sofferenza della vittima che spesso va oltre l’episodio criminoso di per sé e si prolunga nel tempo. Si parla di “fattori predisponenti” per riassumere quei comportamenti che rendono la vittima “papabile” agli occhi del carnefice. Sono occasioni inconsce, inconsuete e spesso imprevedibili che possono riguardare sia le caratteristiche psicofisiche della vittima che fattori esterni: un aggressore può per esempio cercare una donna bionda (caratteristiche psicofisiche) oppure una persona che
si trova in un certo posto in un certo momento (fattori esterni).
Il tasso di vittimizzazione
Un altro fattore fondamentale per lo studio delle vittime di reati è il tasso di vittimizzazione che indaga i reati che non sono stati denunciati. In Italia si parla di 134mila individui all’anno coinvolti in reati quali stupri, incesti, saccheggi, aggressioni e furti. Indagini di questo tipo sono fondamentali per comprendere anche il “sommerso”, ossia tutte quelle situazioni che non vengono denunciate alle forze dell’ordine o alla magistratura e che, senza approfondimenti come questo, rimarrebbero sconosciuti.
Il ruolo dell’Unione Europea
Sulla base della “Dichiarazione dei principi basilari della giustizia per le vittime di reato e di abuso di potere” elaborata dalle Nazioni Unite nel 1985, l’Unione Europea nel 2001 ha chiesto che ogni Stato membro preveda nel proprio sistema giudiziario un ruolo appropriato per le vittime. L’Italia non ha mai attuato né questa richiesta né quella analoga formulata nel 2012. Nel nostro Paese anche i media hanno un ruolo fondamentale per dare la giusta dignità alle vittime di reati, ma troppo spesso si comportano diversamente.
Le conseguenze psicologiche dei crimini
La vittimologia, oltre a studiare che cosa porta la vittima a diventare tale, approfondisce anche le conseguenze psicologiche del crimine subito. Molto spesso le vittime necessitano di un percorso psicologico e psichiatrico tale da portarle a elaborare l’esperienza del crimine subito. Volendo fare alcuni esempi a titolo esemplificativo, si parla di senso di colpa, autobiasimo, vergogna, paura, impotenza, stress, ansia e depressione, fino ad arrivare al disturbo da stress post-traumatico (PTSD). Quest’ultimo può portare a un incremento della vulnerabilità personale e a un isolamento dal mondo.
È fondamentale indagare le conseguenze che un crimine può avere nella vita della vittima per poter elaborare un’efficace strategia per affrontarle.
L’errore più grave: la colpevolizzazione della vittima
Quando si indaga sulla vittima di un reato l’errore più grande è cadere nella sua colpevolizzazione confondendo i fattori predisponenti con una predisposizione al reato. Questo concetto è stato coniato nel 1971 dallo psicologo statunitense William Ryan. Ryan dimostrò che la vittima tende a essere più colpevolizzata se appartiene a categorie sociali medio-basse o a delle minoranze.
Si parla di “vittimizzazione secondaria” quando la colpevolizzazione delle vittime, il renderle in qualche modo responsabili di ciò che hanno subito, diventa una seconda aggressione, questa volta da parte delle istituzioni, della stampa o dell’opinione pubblica. La colpevolizzazione delle vittime è particolarmente presente nei casi di crimini sessuali: molestie e abusi sarebbero causati dall’abbigliamento indossato dalla vittima o dai suoi modi di relazionarsi con le altre persone. In altri casi si analizza in modo retrospettivo la vita della vittima, cercando di trovare episodi che “giustifichino” in qualche modo l’autore delle violenze perché la vittima “se l’è cercata”.
La difesa “da panico gay”
In Gran Bretagna e negli Stati Uniti è stata usata come strategia difensiva una presunta “difesa da panico gay” in processi per aggressione od omicidio nei confronti di persone omosessuali oppure considerate tali. Gli avvocati che hanno utilizzato questa strategia difensiva sostenevano che proposte romantiche o sessuali da parte di uomini ad altri uomini siano così offensive e spaventose che chi le riceve entra in uno stato di infermità mentale tale da sfociare in una violenza inusuale. Colpevolizzare un approccio omosessuale e implicitamente paragonarlo a un’aggressione sessuale ha portato qualche volta a una riduzione della pena ma mai a un’assoluzione. Al di là di questo, il risultato è stato una colpevolizzazione della vittima sulla base del suo orientamento sessuale.