Partendo dall’osservazione, è facile rendersi conto di quanto i neonati possono essere diversi gli uni dagli altri e quanto diversa è la loro capacità di comunicazione, di relazione e di stare al mondo. Alcuni neonati sono da subito collegati al loro oggetto d’amore, lo cercano attivamente, si eccitano alla vista del seno e si placano quando hanno il capezzolo in bocca, altri sono invece più ritirati e lasciano alla madre il compito di prendersene cura, di decodificare i loro messaggi, di chiamarli alla vita. Altri ancora sembrano prolungare nel mondo esterno la vita intrauterine, dormono molto, sono flebili, lenti, appaiono quasi privi di bisogni e lasciano alla mamma il compito di dare inizio a un legame significativo.
Neonati così diversi con abbozzi di vita mentale, che rispondono in modo tanto variegato agli stimoli ambientali, saranno di sicuro influenzati dall’incontro più o meno buono con una mamma accogliente o al contrario respingente e di sicuro inciderà il patrimonio genetico con cui vengono al mondo, ma, senza dubbio, bisogna fare i conti con l’esperienza della nascita più o meno traumatica e ancora prima con la qualità della vita intrauterina.
E’ esperienza comune alle mamme osservare che il proprio piccolo predilige la voce materna, riesce a distinguerla tra le tante, si volta al suo richiamo, talvolta si quieta nell’ascoltare una canzone che la mamma ha cantato durante la gestazione, come se riconoscesse da tempo quel suono, la prosodia, la musicalità delle parole. E pare che il pianto alla nascita abbia già il profilo melodico della lingua udita nella vita fetale (Wermke K, 2009).
Il così detto “mammese” è una lingua presente in tutto il mondo e declinata usando toni alti, modulati, accentuati, viso a viso con il bambino permette un intesa che non necessita della comprensione concettuale e logica. Soprattutto negli ultimi mesi di gravidanza i feti, sussultano, toccano, gustano, vedono quello che si può vedere e se una luce intensa li colpisce nella pancia della mamma si voltano dall’altra parte. A volte sembrano voler comunicare con la propria mamma, dando piccoli colpi altre volte più forti e accentuati, come se si trattasse di un bisogno ancestrale di comunicare con l’esterno, di farsi sentire, come se fin dal concepimento il futuro neonato nutrisse il desiderio e il bisogno di vivere insieme agli altri. Studi ecografici sulla vita fetale hanno dimostrato che esiste una continuità di comportamenti e di temperamento tra la vita pre e post-natale.
Particolarmente interessanti sono le osservazioni fatte da Piontelli e altri, su coppie di gemelli. Ad esempio è stato osservato che il gemello che ha più spazio dentro l’utero, che esplora liberamente con gli arti e con la bocca la placenta e il cordone ombelicale, tende ad avere dopo la nascita un atteggiamento più aperto, tende ad afferrare il mondo fuori di sé, si muove verso spazi ampi con decisione come se volesse impossessarsene, mentre il gemello che in utero è vissuto dentro spazi più ristretti, mantiene questa abitudine anche da neonato, è più passivo, remissivo, aspetta che sia la realtà ad entrare dentro di lui.
Due gemelle femmine che erano solite a darsi colpi all’interno dell’utero continuarono a farlo anche dopo la nascita, e così via in tanti altri esempi, volti a dimostrare la continuità tra il dentro e il fuori. Quindi il neonato viene al mondo non come una tabula rasa, ma con un bagaglio di esperienze frutto delle esperienze della vita prenatale. E penso che si usi appunto la parola “vita” – prenatale, per dare importanza a quel periodo in cui il feto si accresce, si sviluppa, partecipa e appunto “vive” in maniera attiva in un rapporto privilegiato e irripetibile con la propria mamma. Ben nota è la capacità imitativa del neonato, che fin da subito riesce a riprodurre l’espressione del volto di chi lo sta osservando, segno della fascinazione della presenza dell’altro per il bambino.
Treverthen a questo proposito, ha interpretato questa capacità del neonato come una predisposizione dialogica tra bambino e adulto: il bambino dimostra una consapevolezza per i sentimenti del caregiver prima delle parole. Questo potenziale è immediato, non verbale, senza concetti e teorie definito da lui “una immediata e delicata sensibilizzazione a essere con-l’altro. Prima di iniziare a camminare e esplorare il mondo il bambino ha relazioni: è attento, ricerca e modula la comunicazione con latri esseri umani”.
Senza parole ma immersi nei suoni, nella melodia del discorso, i gesti, i toni della voce, le espressioni del volto e le posture, tutto è dialogico nel contatto tra neonato e mamma. Brevissimo accenno a Bion che parla di un corredo mentale, con cui il bambino viene al mondo costituito da “preconceptions” innate di derivazione ancestrale, così come i proto pensieri derivate dalle primissime frustrazioni e in generale da un’attività proto mentale. Secondo la sua teoria alcune esperienze fisiologiche o sensoriali acquisterebbero ad un certo punto delle qualità psichiche.
Tali qualità psichiche percepite da una coscienza primordiale non sarebbero ancora pensabili e destinate ad essere evacuate tramite identificazione proiettiva dentro la madre per trovare in lei un pensiero che le contenga e le esprima. I nuclei proto mentali probabilmente si vanno formando a partire dalle ultime settimane della vita intrauternina e servirebbero quindi per dare al neonato la capacità di comunicare con la propria mamma. Quindi la mente inizia, anche per Bion, a nascere nella vita intrauterina ma si sviluppa e si accresce dopo, grazie all’incontro con la mamma, che nei termini di Bion deve “partorire” la mente del bambino.
E’ chiaro dunque che il bambino ha bisogno della madre e del mondo esterno con la sua ricchezza di percezioni per potersi sviluppare, come disse Winnicott “ non esiste una cosa come un bambino”, per sottolineare l’importanza vitale per il neonato di un caregivers che lo accudisce e lo aiuti a crescere. Proprio ieri ho ascoltato, durante un seminario, le conclusioni di un crudele esperimento, che mi ha particolarmente turbato, fatto anni fa per verificare la lingua originale di alcuni neonati, che venivano tolti dalle loro madri e affidati a delle balie che avevano l’ordine di non parlare mai con i piccoli. Alla fine i neonati sono tutti morti, sebbene nutriti, era stata tolta loro la possibilità di avere uno scambio relazionale con una figura di accudimento, che va ben oltre il nutrimento fisico. Del resto sono tristemente noti gli studi di Spitz sui bambini messi in orfanotrofio. In sintesi, è profondamente mutata la concezione dei primi anni di vita e ancora oltre, della vita fetale.
La contrapposizione storica tra mente e corpo, tra natura e cultura, ha avuto come ovvia ricaduta una lettura pessimistica della prima infanzia, in cui il neonato veniva considerato alla stregua di un corpo senza anima, un essere primitivo da portare per così dire a forma umana, a insegnare tutto quello che c’è da sapere. Oggi invece si è arrivati alla visione di un neonato ricco di competenze e qualità, con un potenziale da sviluppare se immerso in un ambiente sufficientemente sano, in grado di consentirgli di portare a termine le trasformazioni necessarie per arrivare all’età adulta.