Vaso di Pandora

Verità, post-verità

Verità, post-verità

di Piero Gianotti

“Per dialogare non basta parlarsi, scambiarsi delle parole. Anche i potenti di questo mondo parlano tra loro, ma quasi sempre ciascuno parla per se stesso o per i propri amici. E due monologhi non fanno un dialogo. Ci si può servire della parola per nascondere le proprie intenzioni più che per manifestarle, per ingannare l’avversario piuttosto che per convincerlo.” (N. Bobbio)

La parola, il dialogo, si fanno portatori di verità e menzogne laddove verità e menzogna appaiono, come peraltro sono, indiscernibili. Chi dice la verità conosce solo quella, mentre chi mente conosce la verità e la sua alterazione. Per alterare la verità occorre mettersi nei panni dell’altro, interpretare rapidamente le sue attese, studiare i suoi comportamenti ed evitare nel contempo di fare apparire troppo trasparenti i propri.

Mentire come forma sofisticata di intelligenza, quindi. Si impara a mentire da bambini, nel gioco, nel “far finta di”, nel mettersi nei panni di, così come antropologicamente, interpretare i falsi segnali ha certamente contribuito a mutazioni importanti per la specie.       
L’inganno, dunque, appartiene alla logica del vivente, anzi molto spesso è la condizione della sua vita. Siccome per ingannare bisogna essere almeno in due, la bugia non è solo il primo segnale dell’intelligenza, ma anche il primo veicolo della socializzazione. Chi dice il vero, infatti, è esonerato dall’entrare nella mente dell’altro, mentre chi mente non può esonerarsi da questo lavoro di intima penetrazione su cui si fonda ogni relazione sociale.

Parlare di verità e menzogna qui, non vuole implicare contesti etici o morali, ma si riferisce a ciò che in ambito analitico può significare arrivare alla verità, che potrebbe essere espresso con ciò che è utile per il soggetto in quel momento specifico del suo percorso. L’azione dell’analista è ciò che buca il sapere dell’Io, il sapere già dato, già conosciuto, già saputo, per produrre un nuovo sapere che nella formula del discorso dell’analista viene al posto della verità. La Psicoanalisi è una talking cure e conferisce all’esperienza della comunicazione la sua linfa vitale.

Lo psicoanalista deve guidare il paziente nella comunicazione per far emergere quelle verità rimosse che si sono rese testi leggibili solo all’analista: i sintomi. Una volta emerse, devono poter essere sfruttate per un riordinamento della biblioteca che è la storia del soggetto, affinché tutto assuma un senso. In questa direzione, il linguaggio assume una funzione strutturante. (Lacan)
Compito del terapeuta è dunque, per Lacan, quello di non saturare la domanda, ma di riconsegnarla ogni volta al soggetto che troverà la propria risposta. La domanda, che non riceve risposta, rimette il sapere al suo posto, nel luogo dell’Altro. Solo da questa dimensione si può formulare la questione della verità sottesa alla propria domanda ed espressa dal sintomo.

Pertanto la verità non si può cercare e svelare per intero. Se si dà è solo nella forma del compromesso, del dire a metà.
Si potrebbe parlare quindi di processo verso la verità, riguarda il divenire di persone che si impegnano nella ricerca della verità: noi diventiamo la verità, non la deteniamo. Un processo attraverso il quale una persona diventa se stessa, chiunque egli sia.

Questo è un punto nodale: la verità non può essere posseduta né dall’analista, né dal paziente. La verità non può essere estratta o imposta a nessuno e tantomeno ad una persona che viene in cerca di aiuto. La verità non può essere data. Si può solo cercare di diventare verità.

Fuori dal contesto analitico, mi sono soffermato a pensare ad un lemma coniato negli ultimi anni ad Oxford, divenuto “Parola dell’anno 2016”, che ci segnala una questione proprio della cultura contemporanea: la verità è divenuta di secondaria importanza, se non irrilevante, pur non essendo falsificata o contrastata.

Si tratta della parola post-truth, dopo/oltre la verità, un aggettivo «che fa riferimento o indica circostanze in cui i fatti oggettivi hanno minore influenza nella formazione dell’opinione pubblica del ricorso alle emozioni e alle credenze personali». Il termine descrive una situazione in cui i dati di fatto non sembrano avere molta presa nella comunicazione (politica e non solo), né costituire un criterio di riferimento. In questo senso, più che “dopo” ci troviamo “oltre” la verità.

Il fenomeno presenta le caratteristiche salienti del mondo globale e digitale, ossia radicato e alimentato dalle dinamiche dei new media. Siamo dunque alle prese con gli effetti reali del mondo digitale, anzi con la gestione di quella sorta di mutazione antropologica che la tecnologia digitale produce poiché impatta sulla nozione di tempo e di spazio, sulla percezione di sé, degli altri e del mondo, sul modo di comunicare, di apprendere, di informarsi. Nella società post-truth ci si sente liberi non solo di dire cose “politicamente scorrette”, ma anche “palesemente false” per screditare chi è considerato un avversario, senza che questo susciti alcuna reazione collettiva o provochi conseguenze: di fatto è considerato un comportamento legittimo. Nel flusso comunicativo le fake news (notizie artefatte o “taroccate”, oltre alle note “bufale”) vengono rilanciate esattamente come la buona informazione e acquistano la stessa credibilità. La post-verità ci balza agli occhi, ci destabilizza e ci destruttura, ma al tempo stesso ci interpella, anche se non è né chiaro, né scontato in che direzione ci stia portando.

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